La famiglia reale della letteratura fantastica torna nelle librerie italiane. Non tutta per la verità. Manca la regina del castello di Bangor, Maine, immediatamente riconoscibile per la cancellata a forma di ragnatela sormontata da pipistrelli svolazzanti. Di Tabitha Spruce in King sono usciti in Italia solo due libri, La trappola e Come candele che bruciano, scritto a quattro mani con Michael McDowell. Lei però ne ha scritti otto, senza contare diversi racconti. Manca all’appello anche il cadetto Owen Philip King, classe 1977, che ha pubblicato nel 2013 il suo primo e molto lodato romanzo, Double Feature.

Sono in compenso arrivate le due penne principali della famiglia: Stephen King, con Fine turno (Sperling & Kupfer, pp. 477, euro 19.90) e il figlio Joe Hill con The Fireman-L’uomo del fuoco (Sperling & Kupfer, pp. 312, euro 14,90). Il romanzo di King conclude la trilogia dedicata al poliziotto in pensione Bill Hodges, iniziata con Mr. Mercedes e proseguita con Chi perde paga. Anche il romanzo di Joe Hill è il primo di due volumi: il secondo, L’isola della salvezza, uscirà in dicembre. Solo che in questo caso la divisione è frutto di una inspiegabile scelta editoriale della Sperling, che ha letteralmente spaccato in due quello che nella versione originale è un unico romanzo. Un’idea poco felice da ogni punto di vista. Non solo perché raddoppia indebitamente il prezzo ma soprattutto perché spezza il ritmo di una narrazione che dovrebbe essere invece unitario.

Non lasciatevi ingannare dal fatto che il romanzo di papà Stephen, nelle librerie italiane, campeggia in vetrina mentre per trovare quello di Hill bisogna spulciare gli scaffali. In patria Joe Hill non è affatto «il figlio di King». È una stella che brilla di suo, arrivato al successo presentandosi solo col nome e il second name ma nascondendo gelosamente il cognome. È migliorato di libro in libro fino a raggiungere con quest’ultimo la vetta delle classifiche sia in termini di copie vendite che di critica.
Stephen King ha influenzato a fondo quasi tutta la letteratura fantastica dell’ultimo mezzo secolo. Sarebbe troppo chiedere proprio a suo figlio di non essere anche lui, a modo suo, un «kinghiano». Joe Hill ha imparato molto dal padre e gioca con la somiglianza. Cita personaggi e particolari presi dalla folta bibliografia kinghiana, si tiene in equilibrio tra l’omaggio e l’autoironia e certo, mentre scriveva The Fireman, era ben consapevole dell’inevitabile paragone con il capolavoro di Re Stefano L’ombra dello scorpione. In entrambi i romanzi un virus stermina quasi completamente la popolazione mondiale. In tutti e due una piccola comunità resiste alla distruzione e al dilagare del male che ne consegue.

king1
Stephen King e il figlio Joe Hill da piccolo

La somiglianza superficiale evidenzia maggiormente la diversità sostanziale. Il lettore che prendesse in mano i libri di Joe Hill per trovarci materia simile a quella dei romanzi del famoso padre renderebbe a se stesso un pessimo servizio, condannandosi alla delusione e forse mettendosi in condizione di non poter più apprezzare ciò che ha tra le mani.

Joe Hill, a differenza del padre, non è un autore fondamentalmente realista camuffato. È uno scrittore fantastico e visionario, ricorda più Ray Bradbury che Stephen King: soprattutto in quest’ultimo romanzo, l’eredità di Fahrenheit 451 e del Popolo dell’autunno è più essenziale di qualsiasi altra. Hill ha nutrito la propria immaginazione con libri, film e fumetti, di cui è peraltro autore, molto più che non con l’osservazione del mondo intorno a lui e adopera la letteratura di genere per porre questioni più sofisticate e forse più sottili di quelle con cui si misura il padre.

La sua epidemia non è una micidiale influenza come la Captain Trips dell’Ombra dello scorpione. Il virus, qui, disegna sulla pelle dei contagiati magnifici arabeschi dorati. Adornano i malati per giorni o settimane prima di prendere fuoco e bruciarli vivi.
Il flagello ha però anche un versante magico e mistico. Lo si può controllare e adoperare per arrivare a uno stato di estasi collettiva religiosa, come riesce a fare la comunità resistente che costituisce il centro della narrazione, assediata dalle squadre di crematori incaricati di eliminare chiunque abbia contratto la malattia nella vana speranza di arrestare il contagio. Quel che preme di più a Joe Hill non è però la vicenda avventurosa: è il rapporto che la protagonista Harper, chiamata probabilmente così in omaggio a un altro modello, Harper Lee, intrattiene con una comunità che è allo stesso tempo un rifugio e un pericolo, traversata da tutte le tensioni che marchiano le sette.

Con Fine turno, non a caso dedicato al creatore di Hannibal Lecter, Thomas Harris Stephen King conclude invece l’escursione nel thriller iniziata con Mr. Mercedes. In quel romanzo, per la seconda volta nella sua carriera, anticipava un sanguinoso attentato terrorista. In Insomnia, del 1994, uno dei personaggi progettava un’ecatombe lanciandosi con l’aereo su uno stadio. Dopo l’11 settembre l’autore ha sempre preferito non parlare di quel libro. Il serial killer e aspirante suicida di Mr. Mercedes compie una strage, come avverrà poi nella realtà a Nizza, lanciandosi con l’auto a tutta velocità su una folla in cerca di lavoro.

Alla fine di quel romanzo Brady Hartsfield, il killer, era ancora vivo ma ridotto a un vegetale. Nella conclusione della trilogia lo ritroviamo invece più pericoloso che mai, in grado di occupare le menti altrui e controllarne i corpi dal suo letto d’ospedale. Come sempre in King la componente sovrannaturale è meno centrale e meno conturbante degli orrori quotidiani che lo scrittore racconta esaltandoli con la messa in scena horror. In questo caso si tratta della tragedia dei suicidi degli adolescenti, che negli Usa sono un problema di prima grandezza, ma anche dei pericoli veicolati dal Web, in particolare nell’impatto su strutture fragili come sono spesso quelle adolescenziali. Allo stesso tempo, King descrive un’agonia, quella del protagonista alle prese con un cancro devastante.

the-kings
Stephen King con la moglie Tabitha, scrittrice

La forza di Stephen King non sta nell’esercizio di stile ma nella capacità di coinvolgere e quasi di travolgere empaticamente il lettore. È lo scrittore stesso, nel saggio On Writing, a definire l’empatia il segreto del suo stile. Il confronto tra lui e Joe Hill è da questo punto di vista illuminante. La prosa dell’autore più giovane è probabilmente più elegante. Il principe ereditario dell’horror americano intavola col lettore un rapporto più classico, permettendogli di restare come un passo indietro rispetto alla pur coinvolgente narrazione. Stephen King ingaggia un corpo a corpo col lettore proprio per impedirgli di restare indietro di quel passo e calarlo completamente nella storia a livello emotivo.

Ormai nessuno considera più il maestro di Bangor uno scrittore dozzinale o finto. Se una parte della critica, inclusi molti suoi lettori, esita ancora nel riconoscerlo come grande autore moderno è probabilmente più per questo aspetto che non per il «vergognoso» successo di pubblico. A King viene riconosciuta immaginazione, capacità di avvincere il lettore, maestria nel affrontare la realtà americana dietro il paravento horror. Il tutto però tessuto con una stoffa non particolarmente fine. In parte è davvero così, perché King vuole essere soprattutto un grande narratore: ogni volta che siede di fronte al computer, proprio come Bruce Springsteen quando sale su un palco, parte determinato a non permettere al lettore di sottrarsi al suo incantesimo. Ce la fa quasi sempre.

 

 

SCHEDA

All’università del Maine, che ha sede a Orono, è nata una cattedra di letteratura in onore di Stephen King, il maestro dell’horror all’americana. Le lezioni per la nuova cattedra inizieranno nell’agosto 2017 e l’ateneo ha aperto una selezione per affidare l’incarico a un docente per il prossimo quinquennio. L’autore di bestseller come «Carrie» e «Shining» si è laureato nel 1970 all’University of Maine. Dall’anno accademico 2017/2018 la «Stephen King Chair in Literature» farà parte del Dipartimento di letteratura angloamericana, finanziata con 1 milione di dollari dalla Harold Alfond Foundation.