Ogni opera di filosofia della scienza deve combattere con un pregiudizio: a cosa serve la filosofia della scienza? Il filosofo della scienza si occupa dell’immagine della natura e della ragione che emerge dal lavoro degli scienziati. Eppure gli scienziati paiono spesso disinteressarsene. «La filosofia è morta non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza», è il giudizio sprezzante del fisico Stephen Hawking. «Le sole persone che, per quanto ne so, leggono i lavori dei filosofi della scienza sono altri filosofi della scienza», aggiunge un altro fisico teorico, Lawrence Krauss. La domanda iniziale si pone dunque anche davanti all’ultimo libro curato da Paolo Pecere, filosofo della scienza all’università di Cassino. Si intitola Il libro della natura (Carocci, pp. 423, euro 30) e raccoglie una ventina di saggi scritti da scienziati, storici e filosofi sui rapporti tra scienza e filosofia, dalla rivoluzione copernicana a oggi.

Pecere, che è anche autore di due dei saggi contenuti, non elude il tema dell’utilità della filosofia della scienza. Nell’introduzione, proprio lui riporta le citazioni di Hawking e Krauss come termine di confronto. L’autore ricorda che non è una posizione unanime. Nella formazione di Albert Einstein, ad esempio, Platone, Kant e Schopenhauer avevano avuto una notevole influenza. A Spinoza, Einstein aveva persino dedicato un poemetto d’amore. Lo dimostra anche il fisico Carlo Rovelli: «i fisici che a parole svalutano la filosofia sono semplicemente superficiali», scrive nel suo contributo. È una delle ragioni per cui «la fisica teorica non ha prodotto nessun grande risultato negli ultimi decenni».

Non è stato sempre così. Se la filosofia della scienza si è ovviamente nutrita del lavoro dei ricercatori, anche i ricercatori hanno spesso adottato i metodi e le categorie della filosofia nell’attività di scoperta. Nei saggi dedicati alla meccanica quantistica, si riportano, ad esempio, le numerose critiche ai fondamenti metodologici della teoria. Sebbene dal punto di vista sperimentale la teoria funzioni benissimo, il suo fondamento logico fa tuttora discutere: «la comunità scientifica non ha ancora trovato una direzione chiara da seguire per superare i limiti della teoria», scrive il fisico Angelo Bassi nel bel saggio dedicato alle interpretazioni alternative. Dal questo dibattito, nient’affatto sterile, sono nate le teorie sull’entanglement, la capacità di particelle lontane di influenzarsi istantaneamente su cui oggi si basa un vasto ambito di ricerca: dai computer quantistici alla biologia (se ne è parlato su questo giornale il 15 dicembre 2015, a proposito de La fisica della vita di J. Al-Kahlili e J. McFadden). Ragionare sulle «regole» della scienza, dunque, si rivela utile per gli stessi scienziati.

Molti scienziati, invece, ritengono che si tratti di un inutile spreco di tempo. Dal loro punto di vista, la scienza da Galileo in poi è stata una successione di teorie coerenti in grado di spiegare una mole crescente di dati empirici. Ogni discorso pubblico sulla scienza, dalla valutazione dei suoi risultati alle scelte sui finanziamenti, deve dunque proteggere dai disturbi esterni il proseguimento di questa successione.

Ma come giudicare la coerenza di una teoria scientifica? Dalla rivoluzione copernicana, la coerenza è stata spesso identificata con la rappresentazione matematica di una teoria. Angelo Marinucci, Stefano Salvia e Andrea Cintio, nel loro articolo dedicato alla meccanica classica, citano il matematico francese Lagrange, secondo cui la meccanica era una «branca» dell’analisi matematica. Come spiega Giambattista Formica, anche la matematica è meno solida di quanto appare. Non tutte le proposizioni matematiche vere possono essere dimostrate, scrive citando Gödel: «sono piuttosto necessari continui e rinnovati ricorsi all’intuizione matematica».

Nell’attività quotidiana di un ricercatore c’è effettivamente poco spazio per interrogarsi sulla logica delle teorie e su cosa spinga la conoscenza in una direzione o in un’altra. La rilevanza di tali quesiti è più evidente laddove la ricerca pura entra in contatto con le altre sfere della società che la circondano. Diversi saggi presenti nel Libro della Natura affrontano ad esempio il rapporto tra le teorie scientifiche (soprattutto nella fisica) e l’habitat tecnologico in cui esse appaiono e si sviluppano. Una visione ingenua suggerisce che la tecnologia sia l’applicazione della scienza. Ma spesso avviene il contrario: è la disponibilità di nuove invenzioni a rendere possibili la nascita delle teorie.

Alla domanda «Perché la rivoluzione copernicana ha avuto luogo in Europa e non in Cina?» posta sin dal titolo, Donald Gillies nel suo contributo dà tre risposte: matematica, certo, ma anche vetro e navi. L’industria delle lenti e della navigazione fornirono nuovi dati da studiare attraverso i cannocchiali e l’obiettivo applicativo: orientarsi sulle nuove rotte oceaniche. Simile è il punto di vista di Giovanni Battimelli su Einstein. L’impiego all’ufficio brevetti contribuì alla sua riflessione teorica: «buona parte delle richieste sottoposte al suo esame critico erano tentativi di risolvere, con mezzi tecnologici basati sull’elettromagnetismo, il problema della coordinazione delle misure del tempo». Dunque, la sua elaborazione fu «filiazione diretta del suo lavoro di critico scrupoloso delle tecnologie». Perfino le tecniche artistiche, come la prospettiva, influenzarono gli scienziati, se è vero che «il concetto moderno di spazio (e di geometria) trova la sua origine nelle ricerche rinascimentali sul bello» (De Risi). Molte «rotture» scientifiche rivoluzionarie, dunque, non nascono dalla logica interna del fare scienza, ma dalla contaminazione con ciò che avviene fuori dal laboratorio.

Non tutti i lettori di Pecere saranno scienziati o filosofi di professione. Anche per loro indagare i modelli conoscitivi non sarà però un esercizio sterile, soprattutto quando si tratta di teorie in divenire, la cui evoluzione avviene davanti ai nostri occhi. Telmo Pievani si concentra sulla genetica, in grado di cambiare il nostro sguardo sulla realtà. «Si finisce per attribuire al gene un significato intrinseco», con conseguenze anche nel dibattito pubblico attuale. «Se condanniamo la fecondazione eterologa in vitro, quasi fosse un tradimento coniugale, è perché l’essenza genetica è diventata molto più importante dell’ambiente di sviluppo, naturale e sociale, di un individuo», scrive Pievani. Il migliore editoriale sulla legge Cirinnà l’ha scritto lui.