Geisha: (gei) significa «arte» e (sha) significa«persona».Ma non esiste un’unica tipologia di geisha: ci sono quelle destinate ad animare la vita intrisa di fascino delle grandi città come Kyoto e Tokyo, icone di sensualità, arte, bellezza e in relazione alle quali i riferimenti alle attività sessuali non sono quasi mai palesi, e ci sono le onsen geisha, collocate al gradino più basso della categoria delle intrattenitrici, destinate a rozzi e spesso violenti frequentatori di una stazione termale o a piccoli proprietari terrieri, membri della criminalità locale o, ancora, a turisti in cerca di divertimento a poco prezzo.
Nell’esistenza di queste donne ricchezza e romanticismo sono sostituiti da duro lavoro, dall’umiliazione e e dall’annullamento della propria identità.
Masuda Sayo, nata nel Giappone del 1925, appartiene a questa seconda categoria e la vita che descrive nella sua autobiografia Il mondo dei fiori e dei salici, Autobiografia di una geisha, pubblicato per la prima volta in Italia nella bella traduzione di Silvia Taddei, (ObarraO Edizioni), offre uno spaccato autentico, doloroso ma anche ricco di energia femminile di questa realtà.
Figlia illegittima, cresciuta senza una figura paterna, all’età di sei anni, invece di ricevere un’istruzione comincia a lavorare come bambinaia presso la casa di un proprietario terriero della zona. A dodici anni è la sua stessa madre, oppressa dalla povertà, a vendere le gracili spalle di Masuda a una Casa di geisha della stazione termale di Suwa dove per quattro anni verrà sottoposta a un duro apprendistato nelle arti della danza, del canto, dello shamisen, e del tamburo, nonchè a umili e mortificanti lavori. È il 1940 quando Masuda Sayo, sedicenne, fa il suo debutto come geisha. I suoi racconti si concentrano così sugli anni di lavoro nella Casa, sul rapporto con le «sorelle», sulle tetre dinamiche della vendita del sesso. «Non innamorarti mai, però, saresti derisa da tutti e il mondo ti sembrerebbe grigio cenere. Si formerebbe un buco nero nel tuo cuore con un vento gelido che ci soffia dentro. E saresti la sola a soffrire» le raccomanda Karuta, una sorella. Ma Masuda cade ugualmente in questo errore, il suo sentimento viene anche ricambiato tuttavia non è la serenità che il destino ha in serbo per lei.
Scoperta dal suo «patrono», ovvero dall’uomo che l’aveva acquistata dalla Casa, viene da lui scacciata e, ancora una volta, abbandonata. In questa nuova solitudine ritrova il fratello minore e insieme lotteranno per sopravvivere nel Giappone del dopoguerra. Ma non è qui che si conclude il memoir. Infatti sono ancora molte le vicende che Masuda condividerà con il lettore, sgretolando, davanti ai suoi occhi, il mito romantico della geisha senza indulgere in pietismi ma, al contrario, con un approccio dolce, vibrante e ironico.
A far sorgere in Masuda Sayo, trentenne, poverissima, il desiderio di raccontare la sua vita sono stati da un lato la speranza di vincere il premio in denaro del concorso «Storie vere di donne», indetto da una popolare rivista femminile nel 1957, e, dall’altro, la volontà di squarciare il velo, denunciando la sofferenza e il rancore provato in un’esistenza di miseria, di depravazione, di stenti materiali e affettivi.
Masuda Sayo scrive con una lingua semplice, imparata da autodidatta, a tratti poeticamente ingenua ma anche tagliente per la sua immediatezza. Il tono spontaneo e colloquiale non fa che aumentare il fascino della lettura che è quasi un ascolto, l’ascolto del racconto crudo di una donna che con sincerità brutale ripercorre la propria vita. Unicum nel panorama della letteratura giapponese moderna e contemporanea, il libro di Masuda Sayo affida a chiunque vorrà seguirla il suo grido di protesta perché, del termine geisha rimanga impressa non solo la nuca candida lasciata volutamente scoperta ma, soprattutto, l’ideogramma disha, persona.