Nonostante ritardi, corruzioni e difficoltà economiche, questo Expo sembrerebbe essere davvero quel successo annunciato in ogni dove e con dovizia di suggestioni. Perché non andare a vedere di persona allora? Detto fatto. Compro un biglietto online, costo 34 euro. In effetti, un po’ tanto soprattutto in tempi di decrescita infelice. Va bene, è la grande vetrina dell’Italia, ci vuole anche un po’ di solidarietà economica mi convinco. Mi presento in tarda mattinata di un afoso sabato di metà luglio. L’ingresso adiacente alla stazione ferroviaria di Rho, presumo uno degli ingressi principali visto il treno ad alta velocità diretto da Roma, semivuoto. L’incubo delle file interminabili, come pure avevo letto sui giornali, per fortuna scampato. Dopo l’ingresso rimango un po’ spaesato, ma vengo prontamente sommerso di mappe per orientarmi. In realtà c’è un’unica strada, impossibile perdersi, ma la grandeur generale rende l’ambientazione fuori scala e dunque straniante. Superato l’ingresso, davanti a me si presenta il famoso «padiglione zero». Da qualche parte l’ho visto descrivere come il migliore di tutta l’esposizione. Decido allora di non mancare l’occasione. Entro e vengo accolto da un’imponente credenza stracolma di scaffali. Non ne colgo bene il significato e passo oltre. Si accede ad una sala in cui vengono proiettati video di vita bucolica. Dopo due o tre minuti di soggettive su pecore e pastori, vengo spinto dal flusso umano verso un’altra sala, in cui campeggia un plastico sulle varie forme di agricoltura più o meno intensiva. Guardo distratto, passo avanti e mi ritrovo all’uscita.

Rimango un po’ perplesso ma mi convinco di non essere ancora entrato nella giusta predisposizione mentale all’evento, e mi avvio verso il Decumano, l’arteria principale dell’esposizione. Ai lati del passeggio si dispongono i padiglioni dei vari paesi. Un trionfo di bandiere e stereotipi nazionali che mi rimanda alla scenografia spensierata dei mondiali di calcio. Belgio contro Giappone, Sudan contro Russia, in una grande giostra di colori. Il Sudan? Si, c’è proprio il padiglione del Sudan, che tra guerre e smembramenti ha avuto la forza di organizzare una sua presenza in questa vetrina mondiale sul cibo. Obbligatorio a questo punto entrarci. All’ingresso qualche poster dei luoghi potenzialmente turistici del paese, una serie di tavoli con oggettistica varia in vendita, un bar all’aperto. Certo, è il Sudan, immagino abbiano altre impellenze economiche che non sperperare soldi nell’articolare padiglioni in giro per il mondo. Proseguo il mio giro. Supero diversi padiglioni a schiera. Dopo averne oltrepassati un certo numero, entro in quello spagnolo. Sembra in grande stile. Dopo qualche rampa di scale giungo in una sala dove dei video montati su di una parete mi spiegano che in Spagna si mangia bene. Ne ero già convinto, d’altronde. Passo per una sala in cui campeggia un’installazione di piatti colorati da un proiettore video, poi giungo all’immancabile ristorante.

Leggo sbadatamente un menù: un piatto di prosciutto come antipasto, 34 euro. Evito di arrivare ai primi, sono già in strada. Arrivo finalmente al padiglione Italia, il fiore all’occhiello di tutta l’esposizione. Qui, al contrario dell’entrata, mi accoglie una fila interminabile. Decido di provarci, non è che si può venire all’Expo e non suffragare la visita al genius loci. Salgo al primo piano, passando per corridoi di video in cui vengo reso edotto di quanto si mangi bene in Italia. Al terzo piano, in un ennesimo corridoio di video, dei giovani start-upper (si dirà così?), s’impegnano nell’autopromozione delle loro folgoranti idee. Passo per un piano in cui sono piantate alcune piante suddivise per regione, e arrivo all’ascensore che mi riporta a terra, dove mi accoglie un negozietto di souvenir dell’evento. Mi affaccio: magliette bianche a venti euro, quadernini a cinque, sottobicchieri a dieci euro e via così. Mi allontano. Di fronte al padiglione si apre il famigerato «albero della vita», l’apice del kitsch pensabile, a metà strada tra un’opera d’arte brezneviana in dono a qualche paese amico e la mascotte di qualche olimpiade andata male. È giunta però l’ora di pranzare, e in effetti in un’esposizione sul cibo questo non manca di certo.

Provo a guardarmi intorno, sfoglio qualche menù. Difficile trovare dei piatti a meno di quindici-venti euro. Decisamente troppo. Fuori dai padiglioni dei paesi arabi sostano kebabari ambulanti o stanziali, mi avvicino. Il prezzo medio si aggira sui sette-otto euro. Lascio perdere. Vedo una pizzeria, decido di tentare a scatola chiusa. Quanto potrà costare una margherita, in fin dei conti? Arrivo alla cassa e ordino, scoprendo che una marinara (cioè una pizza col pomodoro), viene dieci euro. A portar via, su di un piatto di plastica. Qualcosa comunque dovrò mangiare e mi rassegno. In effetti la pizza è molto buona. Più in generale, la qualità del cibo mi sembra generalmente alta, anche se tutto questo ha un prezzo leggermente fuori mercato. Continuo il mio giro. Visito altri padiglioni immerso in fasci video sparati da potentissimi proiettori. Al padiglione argentino si balla il tango; tra gli yankees si mangiano hamburger e si beve Bacardi; attraverso i padiglioni della Russia, dell’Angola, del Brasile, dell’Oman, eccetera. Arrivo a quello cubano, più prosaicamente trasformato in bar per mojito. Proiettori, video, scenografie stereotipanti e straripanti. Si avvicina la fine della giornata e provo a riordinare le idee. Certo una visita non basta e l’attenzione inevitabilmente finisce per scemare lungo il percorso e sotto al sole estivo. Due pensieri però si impongono nella mia forzata obiettività. Il primo, l’Expo mi ha mandato un messaggio preciso: il cibo di qualità ha un costo economicamente insostenibile. Se vuoi mangiare bene, te lo devi poter permettere. Secondo, la questione alimentare sembra qui aver lasciato il posto alla promozione turistica. Data l’importanza economica e simbolica, forse era inevitabile. Di certo, a parte qualche ovvietà para-agricola, difficilmente si esce con l’idea di aver appreso di più sul tema portante questa gigantesca fiera. E l’idea che il tema e l’evento siano serviti solo al giro economico indotto rimane quella più evidente e difficile da accantonare.