Dedicando la prestigiosa serata d’apertura del New York Film Festival alla prima mondiale di The 13th, il documentario di Ava DuVernay sul corto circuito tra discriminazione razziale e sistema giudiziario Usa, il direttore del festival, Kent Jones, ha puntato quest’anno sull’urgenza dell’attualità, mettendo così la sua manifestazione in sync con lo spirito critico di Black Lives Matter e #OscarSoWhite.

Dopo proiezioni di successo a Telluride e Toronto, era nel programma del NYFF 2016 anche Moonlight, il melodramma indie di Barry Jenkins che, vista la débâcle di The Birth of a Nation, ha preso il posto del film di Nate Parker nel cuore degli opinionisti da Oscar e dei votanti dell’Academy, ansiosi di evitare l’imbarazzo di una premiazione tutta bianca come quella dell’anno scorso.

DuVernay e Jenkins sono effettivamente considerati due nomi di punta del cinema afroamericano contemporaneo e, dato lo zeitgeist attuale, il consenso critico era garantito. Ma il grande black movie del festival di New York era in realtà un altro – inspiegabilmente «nascosto» in un eterogeneo programma di documentari invece che nella sezione principale del festival.

Passato e presente

Remember This House è il titolo del libro che James Baldwin intendeva dedicare ai tre grandi leader del movimento per i diritti civili, e suoi amici, Medgar Evers, Martin Luther King e Malcolm X. Le uniche trenta pagine di quel volume, che Baldwin scrisse prima di morire, nel 1987, sono al centro del nuovo, magnifico, film del regista haitiano Raoul Peck, I Am Not Your Negro, un testo altissimo, di cinema, poesia e politica, narrato attraverso le parole stesse dello scrittore di The Fire Next Time (i suoi eredi – grandi fan di Lumumba, hanno dato a Peck i diritti di tutta l’opera), pronunciate con dolcezza da brivido dal molto poco dolce Samuel Jackson.

Come The 13th, anche il film di Peck oscilla tra passato (gli anni storici del movimento per i diritti civili) e presente (Ferguson, l’inaugurazione di Obama, persino uno squarcio su Trump) ma, laddove il film di DuVernay era costruito sul principio della causalità rigida, prevedibile, di un progetto «a tesi, e montato di conseguenza, il ritmo e le associazioni d’immagini, parole e suoni di I Am Not Your Negro trasmettono l’emozione irrequieta della ricerca e lo sguardo limpido, senza paura, della filosofia.

Nel film di Peck c’è, infatti, la grande lezione del cinema colto e libero di Charles Burnett e Hailé Gerima, due maestri riconosciuti da questo autore apolide che, un po’ come Baldwin (che visse parecchi anni in Francia), può guardare alla questione della razza in America con la chiarezza ulteriore di un outsider.

Le parole selezionate con cura dai suoi libri, e da apparizioni importanti (come la lunga intervista concessa al Dick Cavett Show, nel 1968), Baldwin (che nei Sixties era un intellettuale su scala internazionale e godeva di un’autonomia e di un’immunità che Evers, King e Malcolm X non potevano permettersi) è una guida ideale di questo viaggio nel tempo. Attraverso quello che dice, sovrapposto alle immagini degli scontri di allora che si alternano a quelli di oggi, il film eleva la riflessione sul razzismo – al di là del catalogo delle ingiustizie e dei soprusi – su un piano teorico più alto, atemporale.

Contesto incandescente

Il problema della razza uè n nodo in cui si avvita non solo il destino dalla comunità afroamericana ma dell’America stessa: «Non c’è speranza per l’American dream, perché la semplice esistenza delle persone a cui quel sogno è negato lo farà a pezzi», afferma Baldwin. Sono parole – pronunciate circa cinquanta anni fa – che colpiscono per la loro attualità – specialmente di fronte alle immagini degli afroamericani recentemente uccisi dalla polizia e alla deriva razzista della corsa alla Casa bianca di Trump – ma ancora di più perché rifiutano il presupposto delle identity politics che oggi rende «piccolo», limitato, quasi ogni discorso sulla società civile.

E non solo quando si discute in merito al concetto di razza. Tra la portata e l’ambizione delle parole di Baldwin (e del film di Peck) e The 13th, c’è la stessa differenza, abissale, che esiste tra il controverso libro di William Styron The Confessions of Nat Turner e il film di Nate Parker, tratto dalla stessa storia cinquant’anni dopo.

Alla luce di I Am Not Your Negro (ma anche dell’incandescente Chi-Raq di Spike Lee, uscito l’anno scorso), nel contesto del contemporaneo black cinema, il consenso esagerato che si è creato intorno a un film come Moonlight è purtroppo comprensibile. Diviso in tre capitoli, corrispondenti a tre diverse età del protagonista – un bambino/ragazzo/uomo afroamericano gay di Miami- il secondo lavoro di Barry Jenkins (nato e formatosi in Florida, vive a LA e lavora per il festival di Telluride) è un’opera piccola, intimista, un melodramma che avanza in punta di piedi, pieno di silenzi per «farti pensare».

Il problema è che persino quei silenzi sembrano scritti. Nell’impianto minimal del suo film – il bambino troppo sensibile che viene torturato dai compagni e adottato dallo spacciatore del quartiere; l’adolescente che scopre di desiderare un compagno e reagisce contro i suoi aggressori; l’uomo trasformato dalla prigione – Jenkins ha già introiettato dosi tali di determinismo e di perbenismo cinematografico da rendere i suoi personaggi più delle ombre che delle creature – che vivono, respirano, ci sorprendono. Pericolosamente vicine a dei cliché.