La scienza può tirare un respiro di sollievo: Tom Wolfe nel suo Il regno della parola (Giunti, pp. 192, euro 19,00) ha trovato il tempo e l’agio per dedicare il proprio ingegno a uno dei problemi più difficili con cui la scienza abbia mai dovuto confrontarsi. E, manco a dirlo, lo ha risolto. Senza perdere tempo negli oscuri meandri delle complicate analisi utilizzate dagli esperti del campo, in una limpida serata d’estate lo scrittore americano ha avuto l’intuizione giusta che gli ha permesso di afferrare «in un sol colpo» la chiave del mistero. Un mistero, a ben guardare, assai poco di misterioso, visto che per Tom Wolfe l’origine del linguaggio nasconde un’ovvietà «così totale da far stentare a credere che nessun sapientone patentato l’avesse mai fatta notare prima». La comunità allargata dei paleoantropologi, scienziati cognitivi, studiosi della teoria dell’evoluzione e filosofi del linguaggio può finalmente tirare i remi in barca e dedicare il proprio tempo ad attività più proficue.

Prima di svelare la geniale intuizione che ha portato Wolfe alla soluzione del problema, c’è da premettere che non si può apprezzare cosa gli ha fatto risolvere l’arcano senza capire quel che ha impedito ai «sapientoni patentati» di farlo prima di lui. La risposta è semplice: è una questione di stile più che di intelletto. Per sbrogliare la matassa dell’origine del linguaggio ci vogliono le persone del tipo giusto: Tom Wolfe è maestro nel distinguere gli individui che vale la pena frequentare da quelli da cui è bene tenersi alla larga. Prendete un «acchiappamosche» come Alfred Wallace sfinito dalla malaria in un’isola sperduta dell’arcipelago malese: in pochi giorni butta giù un abbozzo della teoria dell’evoluzione che riassume alla perfezione la teoria a cui Darwin pensava da anni senza trovare la forza (e il coraggio) di scrivere una sola riga. Tra un individuo «confinato in un madido lettuccio sotto un riparo di fortuna nell’arcipelago malese» (Wallace) e uno «seduto a una massiccia scrivania in noce dentro una residenza signorile nelle campagne di Londra» (Darwin) non c’è partita: indipendentemente da ciò che abbia scritto o fatto, Wallace è il tipo di individuo che è bene frequentare assiduamente.

Così come è da frequentare con assiduità Daniel Everett, l’acchiappamosche dei nostri giorni, famoso per aver studiato la lingua dei Pirahã, una lingua che pone non pochi problemi alla «grammatica universale» di Noam Chomsky, il linguista del MIT che è il vero bersaglio polemico del libro. Anche in questo caso, più che gli argomenti teorici, conta lo stile di vita. Everett in effetti – un rude amante degli spazi aperti facilmente scambiabile per un operaio delle piattaforme petrolifere del West Virginia – è tutto ciò che Chomsky non potrà mai essere: «un acchiappamosche vecchia maniera, finito inspiegabilmente fra i moderni linguisti chiusi nello studio con la loro aria condizionata, il pallore bluastro da schermo di computer e le camicie aperte pseudo-virili».

È seguendo Everett che Tom Wolfe arriva alla sua geniale intuizione: l’idea che l’essere umano sia qualitativamente diverso da tutti gli altri animali perché è l’unico animale in grado di parlare. A dispetto di quanto pensi Tom Wolfe della propria intuizione, l’idea della differenza qualitativa tra umani e altri animali è largamente prevalente tra gli studiosi (Chomsky in prima linea). Le cose non vanno meglio con la questione dell’origine del linguaggio: la soluzione di Wolfe (quella a cui i «sapientoni patentati» non sono mai arrivati) è che il linguaggio non è il prodotto dell’evoluzione perché è, invece, «un’invenzione» degli umani. Senza dubbio i sapientoni di professione a volte riescono a complicare i problemi al punto da renderli irrisolvibili.

Detto questo, la tesi del linguaggio come un artefatto «creato» dagli umani è di una semplicità disarmante: un modo per dissolvere il problema facendo finta di risolverlo. Sulla falsa riga di quanto proposto da Tom Wolfe per il linguaggio, infatti, si potrebbe sostenere che gli umani hanno inventato la morale, l’estetica, la religione e così via. In che senso dire che un certo fenomeno è stato creato dagli umani ci aiuta a capire come quel fenomeno ha avuto origine? Se ciò che Tom Wolfe ha afferrato in un sol colpo in una limpida serata estiva è l’idea che gli umani hanno inventato il linguaggio, la comunità allargata degli scienziati dovrà aspettare ancora a lungo prima di concedersi qualche giorno di riposo. Le parole che Chomsky utilizza di solito per mettere qualcuno al proprio posto ci sembrano calzare alla perfezione per lo scrittore americano: «ci risparmi, gentilmente, la sua “originalità”».

Perché pubblicare un libro che affronta il tema delle origini del linguaggio ricalcando uno degli stereotipi classici (l’unicità dell’essere umano dovuta al linguaggio) come se fosse una scoperta a cui nessuno ha mai pensato prima? A chi giova tradurre in italiano un libro che non è un buon libro di scienza è neppure un buon libro di divulgazione scientifica? La risposta a queste domande è semplice e sconfortante allo stesso tempo: perché si tratta di un libro di cui si parla e si parlerà a prescindere dai contenuti di cui parla il libro.

In un paese in cui il numero degli atei consacrati è di gran lunga maggiore di quello dei preti in servizio permanente basta poco ad accendere la miccia: è sufficiente un accenno negativo alla teoria dell’evoluzione o un cavillo con cui prendere Darwin in castagna per innescare un dibattito senza fine. E questo è ciò che sta puntualmente accadendo. In preda all’eccitazione che solitamente assale alcuni giornalisti quando si parla male di Darwin, molte testate non hanno resistito al riflesso condizionato di celebrare il libro di Wolfe cogliendo l’occasione per esaltare la morte della teoria dell’evoluzione e la fine miserevole di Chomsky.

In una situazione simile, pensare alle case editrici come a uno dei luoghi cardine della promozione culturale è una pia illusione. Guardando la foto di Tom Wolfe che, azzimato di tutto punto, troneggia nella quarta di copertina è forte la sensazione che distinguere tra acchiappamosche e gentlemen, esercizio nel quale si adopera lo scrittore americano, sia una prassi sensata; ma a ben guardare la foto, si ha l’impressione che, suo malgrado, Tom Wolfe sia finito dalla parte sbagliata della barricata: dove stanno le persone di cui non è bene fidarsi e dalle quali è meglio tenersi alla larga.