Può accadere che un aereo israeliano con la pancia piena di morte e bombe arrivi sulla città di Saida (Sidone), miri un bersaglio come una scuola e poi faccia marcia indietro, sganciando il suo carico funesto in mare. Qualcun altro farà il suo lavoro sporco, ma quella disobbedienza rimarrà nell’immaginario degli abitanti per decenni. Oppure, si può ritornare a Ain nel Mir, in una piccola casa mezza diroccata di una famiglia libanese dove si insediarono alcuni combattenti fino alla fine della guerra con Israele nel 1991. Prima di andare via, Ali, uno dei soldati, aveva scritto alla famiglia per spiegare le motivazioni di quell’occupazione e dare loro il bentornato. Nascose poi quella lettera nel mortaio di un B-10 e la seppellì in giardino. Sarà l’artista, architetto e filmmaker libanese Akram Zaatari, molti anni dopo, a tornare lì con Ali per cercare la lettera congelata nel tempo, in mezzo a una comunità che collezionava i propri ricordi. Sono questi due video – In this House (2005) e Letter to a Refusing Pilot (2013, con cui l’artista rappresentò il Libano alla Biennale di Venezia) – a costituire l’asse portante dell’intervento di Akram Zaatari alla British School di Roma (la mostra, a cura di Marina Engel, è visitabile fino al 4 marzo; l’incontro pubblico è oggi, alle ore 18).

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Un ritratto dell’artista. Foto di Marco Milan

Zaatari scava, immagina, intreccia verità e finzione ricomponendo i tasselli di un puzzle: parte dal basso, eludendo le affabulazioni di vinti e vincitori, scansando le ideologie e ricominciando dalla vita delle persone. La sua geografia sentimentale la rintraccia spesso nelle lettere: come in quelle corrispondenze con i propri famigliari del prigioniero politico Nabih Awada (incarcerato per la sua resistenza contro l’occupazione israeliana) da cui si possono evincere desideri, sogni, rabbia e dolori di un individuo privato della sua libertà. Pur utilizzando spesso la fotografia, Zaatari non si considera un fotografo: «Mi interessa però il suo procedimento, è un universo a sé, che permette di entrare in relazione con la soggettività di qualcun altro», dice.

«The Archaeology of Rumour» è il titolo della sua mostra romana. La parola «archeologia» si riferisce però a un oggetto particolare delle sue videoinstallazioni: lettere che attraversano il tempo. Frammenti di memoria da riconsegnare al presente. Perché l’accento su questo mezzo di comunicazione in un tempo segnato da Internet?
Uso l’archeologia come una metafora del gesto di ricerca, di quell’investigare nelle impronte del passato, recuperando e scavando tra le storie e le informazioni, per poi organizzarle nuovamente e riproporle attraverso i miei progetti artistici. Questo è anche il motivo per cui Kaelen Wilson-Goldie ha utilizzato l’espressione Archaeology of Rumour mentre scriveva il testo sulla video-installazione Letter to a Refusing Pilot. In questo lavoro, inseguo una voce che si era diffusa a Saida, in Libano, nel 1982: parlava di un pilota israeliano che si era rifiutato di obbedire a un ordine del suo esercito e non aveva bombardato una scuola pubblica.
Il filmato documenta quella scuola (di cui fu direttore il padre di Zaatari, ndr), e, di riflesso, anche la scelta del pilota. Il mio lavoro esamina i fatti in modo indiretto, scrivendo le storie disponibili, facendo ricorso a immagini e oggetti. Al centro del film, c’è quella specie di leggenda che circolava quando ero adolescente: le narrazioni popolari sono parte integrante della storia, vanno considerate uno strumento importante in tempo di guerra. Come porsi rispetto a una «voce»? Da artista, prendo sul serio quel che si dice intorno a un evento…

Può spiegare la genesi di «Letter to a Refusing Pilot»?. Vi si affronta la possibilità di una responsabilità individuale, un gesto di resistenza alla «banalità del male», in un contesto spietato come quello di un conflitto?
In genere, racconto la genesi di quel rifiuto che io mostro in video (il cui titolo è in assonanza con le Lettere a un amico tedesco di Camus, ndr) solo in discorsi pubblici che non possono essere registrati. Per coloro che vengono ad ascoltare, rimarrà sempre un privilegio entrare in contatto con quella storia. Sottrarsi a un comando militare significa assumere una posizione etica. E certamente è anche una scelta che connota un individuo di fronte alla macchina militare, che cerca di rendere ordinario l’assassinio, trasformandolo in un’azione inevitabile, a cui non va data importanza perché gli obiettivi della guerra sono più rilevanti.

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Letter to a Refusing Pilot

Lei è uno dei co-fondatori della Arab Image Foundation, l’archivio più importante del Medio Oriente e Nord Africa. Con questi documenti e fotografie, spesso nelle sue opere ri-racconta la storia utilizzando un punto di vista non ufficiale, privilegiando momenti di vita vissuta. È un modo per arginare lo smarrimento della memoria? E se questo è lo scopo, non sarebbe sufficiente raccogliere immagini e salvarle dalla distruzione?
Dobbiamo accettare il fatto che molte cose scompaiono o subiscono distorsioni di senso, nel momento in cui vengono raccontate più e più volte. Io non sono per conservare tutto ciò che l’umanità produce! Ma il processo di ricerca per registrare storie comuni nella memoria collettiva è un esercizio, e non significa necessariamente una pratica per salvare informazioni da una loro perdita totale. La memoria è un lavoro sul campo. Può essere appassionante occuparsene per un artista, o leggere e osservare nel ruolo di spettatore. Anche quando le storie appaiono scontate, qualcosa sicuramente sta sfuggendo a quella prevedibilità. D’improvviso, può capitare che ciò che sembra viaggiare sul registro della banalità diventi un pensiero profondo intorno al Tempo, un interrogarsi sulla storia, sulla scrittura. In alcune opere, ho evocato momenti in cui la piccola storia ha incontrato quella con la S maiuscola, ma molto spesso ho narrato e recuperato vicende insignificanti. Sono alla ricerca perenne di un modo per raggiungere il futuro attraverso quelle «trame», come fossero una raccolta di narrazioni che descrivono meglio la nostra relazione con le immagini, la fotografia e anche la vita. È qualcosa che riguarda da vicino il nostro tempo.

Nelle sue opere entra in scena la vita di tutti i giorni. Si presta attenzione ai rapporti umani nei momenti critici, di crisi. È forse questa la sua speciale cartografia dei ricordi, un resistere all’espansione delle rovine?
Mi interessa l’irrompere delle emozioni, proprio lì dove non ci si aspetta che succeda qualcosa. In tempo di guerra è sempre possibile osservare come, nell’esistenza di ciascuno, quelle emozioni continuino a trovare un loro spazio. Abitano la «grande Storia», in silenzio. Per coglierle e vederle, è necessario – come spettatore – essere in grado di spostare il punto di vista sull’individuo. Nei miei progetti, consento al pubblico di farlo, di avere quella posizione, godendo dell’angolazione conquistata. Parlare di cartografia è forse esagerato: il mio non è un lavoro sistematico. Molte opere nascono da un interesse personale e vengono generate da incontri talvolta casuali.

Può dirci qualcosa sul suo rapporto con Beirut e il Libano, paese natale che non ha mai lasciato?
Sono nato a Saida, ma vivo a Beirut. Saida ha sempre avuto un posto importante nella mia produzione, per molte ragioni. Conosco quel territorio molto bene e qualche volta l’ho recuperato anche attraverso i ricordi degli altri, attraverso i loro comportamenti. Tutto ciò ha avuto un impatto sulla mia vita, che io lo voglia o no, e mi piace pensare che la modernità e l’umanità con cui spero venga descritto il mio lavoro, siano collegate a una città di provincia come Saida. Beirut è il luogo dove ho deciso di trasferirmi per vivere. È una brutta città, con tanti problemi, ma è anche un posto molto affascinante. Ho conosciuto persone incredibili lì con cui sono diventato amico e ho partecipato a iniziative che mi hanno lasciato il segno. Se avessi dovuto scegliere, non avrei voluto Beirut come mia città di nascita! In ogni caso, il mio lavoro non può non essere radicato nei miei luoghi di origine. Sono cresciuto in Libano e, quindi, lo racconto: non potrei pretendere di continuare ad affrontare questioni connesse alla storia libanese se non fossi rimasto a vivere qui. Forse, se un giorno il mio lavoro cambiasse, potrei partire, ma non credo accadrà presto. Eppure, si avrebbero tonnellate di ragioni per lasciarsi alle spalle Beirut.

Hashem el Madani è stato un fotografo-ritrattista che ha vissuto a Saida, ma ha rappresentato anche una fonte per le sue installazioni e opere: perché ha scelto proprio lui?
Come ho già detto prima, la maggior parte dei miei incontri sono fortuiti. Così, ho conosciuto Madani grazie ad un amico della mia famiglia. Pochi anni dopo, ho capito che avrei potuto parlare di fotografia e della modernità attraverso un professionista e ho scelto Madani per farlo. È stato come decidere di realizzare un lavoro sul campo assumendo una particolare posizione, sapendo che si possono impiegare anni per portare a termine quel progetto, tanto che non ci si può permettere più di alzare lo sguardo verso altri luoghi. Volevo onorare un impegno verso Madani, non per ciò che lui stesso, in quanto persona, ha rappresentato, ma per il luogo in cui si trovava ad operare, per quella sua professione in via di sparizione, in una cultura in rapido cambiamento, e per la mia città. È successo nel momento in cui sono diventato anche co-fondatore di AIF (Arab Image Foundation), così quel progetto ha anche trovato un’eco, aprendo a diversi approcci all’idea di conservazione.