Mircea Cartarescu è ormai considerato il maggior scrittore rumeno e tra i maggiori europei viventi; autore di molte opere, ha ottenuto la fama internazionale con i tre volumi di Abbacinante, opera monumentale e stilisticamente ambiziosissima, edita in Italia da Voland, dove ha ridefinito la portata e le possibilità del romanzo.

Lei è noto per i suoi libri in prosa, ma la sua formazione è quella di un poeta – in Italia è uscita una raccolta per Nottetempo, «Il poema dell’acquaio» – e sovente dice di considerarsi ancora tale.

Sono nato come poeta, mi sono formato come poeta e continuo a considerarmi un poeta. La poesia è la cosa che più mi interessa al mondo, e i poeti sono le persone che rispetto più al mondo perché dedicano la vita, consapevolmente, a fare qualcosa che non frutterà mai del denaro. Lo fanno solo per il gusto di tentare di creare qualcosa di bello, e per l’irredimibile volontà di continuare a guardare il mondo con gli occhi dell’infanzia, non ancora condizionati dalle categorie. È vero che dai trent’anni in poi sono passato alla prosa, ma è solo una questione di forma: per come lavoro, e per come sono fatti i miei libri, anzitutto per il loro essere più una esplorazione interiore che una vicenda in senso classico, mi considero ancora un poeta. Tra l’altro non sarei così sicuro di poter definire Abbacinante un romanzo, benché molti ne parlino in questi termini: oggi la definizione di romanzo è così ampia da poter includere quasi ogni cosa, ma credo sia più legittimo parlare semplicemente di «libro».

«Trilogia» può andar bene?
Trilogia può andare: anche se si tratta di un unico flusso, modulato e permutato, è un’opera tripartita, e concepita per essere tale. Le tre parti che compongono Abbacinante corrispondono ai tre volumi e allo schema simbolico e strutturale che ho scelto, quello della farfalla, considerata dai greci il modello dell’anima umana per il suo mutare da bruco terreno in essere meraviglioso, capace di anelare al cielo. I titoli dei tre volumi sono infatti L’ala sinistra, Il corpo, L’ala destra, e ci sono anche delle specifiche differenze di contenuto. Pur essendo parti della stessa narrazione, e contenendo al loro interno una miriade di personaggi, nel primo volume la figura centrale è quella della madre del protagonista, che è poi mia madre, sebbene con molti elementi fantastici. Nel secondo, quando ogni categoria esplode nella visione, il centro della narrazione diventa Mircea, mio alter ego. Nel terzo, dove in qualche modo si torna sulla terra, col racconto della rivoluzione rumena dell’89 e del crollo di Ceausescu, il fulcro della storia diventa mio padre, o meglio la sua versione trasfigurata, visto che nella finzione letteraria diventa il discendente di un principe polacco. Ma il resto è reale: soprattutto il fatto che mio padre nel comunismo ci aveva creduto davvero ed era poi rimasto profondamente deluso nel vederlo tradito da Ceausescu. Era un uomo di origini umili che dopo aver lavorato in fabbrica era riuscito a diventare giornalista agricolo, e aveva sempre sostenuto gli ideali del socialismo: salvo poi, pian piano, realizzare che Ceausescu aveva trasformato il suo governo in un regime nazionalista e militarizzato – insomma, qualcosa di molto simile al fascismo.

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Mircea Cartarescu

L’ambientazione di «Abbacinante» viene solitamente identificata con Bucarest, ed effettivamente il romanzo comincia lì, col protagonista piccolo e sua madre, e vi si conclude, con la caduta di Ceausescu, ma in realtà spazia in molti altri luoghi. È così?
È un po’ una forzatura dire che si tratta di un libro ambientato a Bucarest: in una bandella o in comunicato stampa è difficile riassumere quel che succede in tre volumi e oltre 1400 pagine, quindi capisco che si ricorra a una tale semplificazione. In realtà ci sono altre tre città cruciali, in Abbacinante, una per volume: nel primo, New Orleans; nel secondo, Amsterdam; nel terzo, Como, col suo lago. Oltre a ciò, ci sono scene che si svolgono anche in altri luoghi – inclusi alcuni inusuali come l’universo subcellulare, quello cosmico e quello della trascendenza – e tempi.

Due dei motivi di maggior interesse rispetto a «Abbacinante», oltre alla qualità della prosa, sono proprio la sua forza visionaria – in particolare ha il merito di aver rilanciato la visione, intesa in senso psichedelico, come strumento conoscitivo – e il fatto di aver messo a servizio della letteratura discipline quali cosmologia, genetica e fisica quantistica, utilizzandole non solo come dispositivi narrativi ma anche come modelli strutturali…
Credo che sia indispensabile per uno scrittore, oggi, abbeverarsi da ogni possibile fonte di conoscenza. La realtà ha raggiunto un livello di complessità tale da richiedere una molteplicità di strumenti in concerto per essere compresa. In effetti, oltre a queste discipline mi rifaccio anche ad altre più antiche, come l’alchimia, che ovviamente è molto meno «scientifica», ma dall’altro lato offre archetipi e filtri interpretativi molto interessanti per un narratore. È corretto quello che lei dice sulla visione: in Abbacinante ci sono anche molti sogni, ma la visione ha una grammatica differente, e soprattutto è lo strumento principe dei mistici, e se il tentativo è quello di gettare le basi narrative di una nuova metafisica, allora non se ne può fare a meno. Del resto, tra i miei punti di riferimento imprescindibili ci sono autori visionari come Kafka, autori più prettamente legati al movimento psichedelico come Pynchon, e anche altri artisti, come John Lennon, che sono stati tra i maggiori interpreti e divulgatori di un immaginario legato alla riscoperta della dimensione visionaria. Se Abbacinante è venuto in questa forma e con queste caratteristiche, dipende anche dal modo in cui l’ho scritto. In un unico flusso, lungo quattordici anni, pagina dopo pagina su una serie di quadernoni, senza mai tornare indietro a rileggere, senza mai riscrivere, partendo inizialmente dalla sola volontà di scrivere un libro di oltre mille pagine e vedere dove tale gesto mi avrebbe portato. L’unico vero lavoro preliminare di Abbacinante è stato il romanzo breve Travesti, peraltro da poco ristampato in Italia, dove mettevo a punto alcuni dei temi che poi sarebbero stati alla base di quel testo.

Dopo aver scritto un’opera del genere, deve essere difficile per un autore tornare a scrivere…
Proprio perché c’era chi diceva che dopo aver scritto un libro così grosso e ambizioso non avrei più fatto niente di buono – e quando ti avvicini ai sessanta puoi anche finire a credere a simili discorsi – ho subito scritto un altro libro ancora più ambizioso. Si intitola Solenoid, è ancora inedito in Italia, e ha a che fare con la quarta dimensione. Consta di un volume unico di 840 pagine e credo che sia anche il miglior meccanismo narrativo che finora sono riuscito a realizzare, ma questo spetta ai lettori valutarlo. Devo ammettere che, se dopo Abbacinante, sentivo di poter ancora smentire quelli che ritenevano che avessi raggiunto il massimo permesso dalle mie capacità – e in tutta sincerità credo di averlo fatto – ora non sono troppo sicuro di poter andare oltre questo lavoro