Il film più bello visto sul Lido finora è fuori concorso. Eppure Frederick Wiseman lo scorso anno è stato premiato con il Leone d’oro alla carriera, e questo meraviglioso e vispissimo signore bostoniano ultraottantenne è uno dei grandi registi contemporanei. Il «problema» è che In Jackson Heights è un «documentario» di quelli classici, da cinema diretto, senza escamotage di genere e «narrativi» che si fatica a mettere in gara – come il modello Cannes insegna, lì poi sono davvero integralisti, film come The Look of Silence di Oppenheimer, qui passato in concorso e premiato, non lo metterebbero mai a gareggiare per la Palma d’oro. Peccato se l’alternativa sono proposte da cinèma di papà come il Marguerite di Xavier Giannoli, indigesta farsa tragica Belle Epoque sulla cantante stonatissima che tutti assecondano dicendole quanto è brava.

E’ nobile, ricca, paga uno stuolo di avidi servi, donne barbute, cantati decaduti strangolati dai debiti, giovani fanciulli, dal ricatto dei loro piaceri en travesti, mariti deboli e compiacenti che riposano le orecchie nelle braccia dell’amante. Una specie di vestito dell’imperatore cucito per cattivo amore o per interesse che sicuramente farà fremere di compiacimenti più di qualcuno.
Jackson Heights è una parte di Queens, New York, il quartiere dove convivono immigrati provenienti da tutto il mondo, India, Cina, America latina, Pakistan, Bangladesh, si contano circa 167 lingue e dialetti, tra gli anziani dei quartiere ci sono ancora molti italiani e irlandesi delle precedenti immigrazioni. Spiega Wiseman che dopo molti film girati all’interno di istituzioni – la National Gallery, Berkeley, l’Opera di Parigi – voleva esplorare di nuovo una zona geografica composta da molte individualità. Cosa racconta dunque In Jackson Heights? La vita quotidiana del quartiere, percorrendo la Roosevelt Avenue, le sue trasformazioni e le sue contraddizioni, i rapporti tra queste persone così differenti che generano conflitti ma anche molta solidarietà.                                                                       

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L’incontro tra “vecchi” e nuovi migranti e gli inevitabili cambiamenti che ogni metropoli attraversa, i processi di gentrificazione e la perdita di uno spazio comune.
Wiseman ci porta nelle strade, tra i banchi di fiori, i negozi di tatuaggi, le estetiste indiane che filma mentre con delicatezza tolgono baffetti e sopracciglia con il filo. Un gruppo di ragazze ispaniche cantano, qualcuno legge al tavolino del bar, degli uomini forse pakistani tagliano il collo a polli e papere per consegnarli alle macellerie, nel self service indiano di serve riso speziato, e nelle scuole coraniche i ragazzini sono separati dalle bambine velate come l’insegnante che copre anche il volto.

In un locale si festeggia il compleanno dell’anziano sindaco, è italoamericano ma ha imparato a organizzare alla perfezione i festeggiamenti per San Patrizio.
I transessuali denunciano discriminazione nei locali e violenza da parte della polizia, alle riunioni di comitato qualcuno suggerisce di rispondere con il CopWatch, filmare col telefonino i poliziotti quando mettono in pratica degli abusi e poi diffondere in rete.
Un gay lo hanno ammazzato, era senza casa, e omosessuale, la comunità gay sente il bisogno di difendersi.

Dalla strada entriamo nei numerosi comitati, anziani, la sarcastica vecchietta quasi centenaria lamenta la solitudine, paga la sua badante duemila euro a settimana. «Quale è il segreto della tua longevità» grida un’altra. E lei: «Sono stata felice fino a quando non è morto mio marito». L’altra le suggerisce che con i soldi i può avere un’amica e persino un amante.
Tra gli immigrati ispanici le storie di chi ha attraversato clandestinamente la frontiera, chi è senza documenti, chi è stato diviso dalle famiglie.
Terribili e uguali ovunque nel mondo, a quelle di chi si avvventura nel Mediterraneo o di chi attende giornate in una stazione, respinto e picchiato da esercito e polizia. Qualcuno dal Messico si è perduto nel deserto, abbandonato dai coyotes come chiamano coloro che li portano dall’altra parte.
Molti hanno piccole botteghe che ora rischiano di essere spazzate via. Arriva Gap, arrivano i grossi centri commerciali, gli affitti sono alle stelle. E’ un mondo Jackson Heights, il nostro mondo di violenza, soprusi, difficoltà di relazione tra culture, abitudini di vita, religioni di cui Wiseman resituisce l’evidenza nelle traiettorie di quel microcosmo. Ognuna delle voci che ascoltiamo è quella del nostro tempo – «soprattutto gli ispanici sono trattati in un modo terribile», racconta Wiseman – e delle sue feroci dissonanze. Siamo in America «terra di democrazia, voto libero e tolleranza», ma anche omofoba, classista, razzista, poliziesca, corrotta.

«Perché vuoi la cittadinanza americana» chiede la donna che istruisce i migranti. Meglio dire per votare che per avere libertà di parola.
Queens diventa un laboratorio di democrazia, di pratica resistente, di sfida a mostrare come funziona o come dovrebbe funzionare in tutto scuola, educazione, vita e battaglie civili.
Una storia americana, e Wiseman dell’America e delle sue crepe è narratore implacabile, nelle sue pratiche e nei suoi scontri che prende forma da una «semplice» osservazione quotidiana.
Senza retorica, enfasi teste parlanti o immagini a effetto. Lui è convinto che la fotografia col bambino siriano morto in mare che ha fatto il giro del mondo sia stato giusto pubblicarla: «Può aiutare chi non vuole vedere a comprendere cosa sta accadendo» ha spiegato nella conferenza stampa. Ma la cifra di In Jackson Heights è un’altra: il teatro del nostro tempo è tutto nella vita di ogni giorno, quella che scorre indifferente e che lo sguardo del regista, magnifico nella capacità di catturare i momenti che illuminano il presente ci mostra con chiarezza.
E’ una questione di punto di vista, di posizione, di scelta di campo, di prospettiva. La realtà è lì ma filmarla come è o come si vuole che sia per «dimostrare» non ne rende la profondità. Wiseman ce ne mostra a ogni film l’essenza composita e in movimento. Il gesto di un grande cineasta.