A poco più di tre mesi dalla scomparsa del suo primo e unico premio Nobel della letteratura, Imre Kertész, l’Ungheria perde un’altra delle sue voci più illuminate e lungimiranti, che aveva contribuito a portare fuori dai confini nazionali la letteratura ungherese e le cui opere sono state tradotte in una ventina di lingue.

È scomparso all’età di 66 anni lo scrittore, matematico di formazione, Péter Esterházy, al quale sono stati conferiti numerosi riconoscimenti internazionali. A ottobre 2015 in una lettera alla direzione della Fiera del libro di Göteborg, alla quale era stato invitato, lo scrittore declina l’invito scrivendo che l’unica cosa di cui «saprebbe parlare tanto e in modo particolarmente ispirato è il suo cancro al pancreas, (…) ma per il momento intende risparmiare il gentile pubblico».

Rampollo della storica famiglia Esterházy, che tanto ha dato al paese in termini di patrimonio storico, artistico e musicale, fa parte di quella generazione di scrittori che si sono formati negli anni Settanta all’ombra del socialismo reale. In questi anni e negli anni Ottanta si sviluppa in pieno quel rinnovamento della prosa ungherese che era partito agli inizi del XX secolo ed è un riflesso del processo socio-culturale che ha preso il via dalla dissoluzione della monarchia dualistica. Come reazione alla persistente crisi di identità storico-nazionale, i nuovi scrittori vedono la «forma» come espressione di un atteggiamento mirante a «creare una cultura largamente approvata che incoraggi alla tollerante accettazione di una serie di valori e punti di vista universali», secondo il critico ungherese Péter Balassa.

Uno dei maestri di questa tendenza della letteratura ungherese, per la quale «l’atto stesso dello scrivere è diventato l’argomento», è proprio Péter Esterházy che, attraverso una sintesi dei più disparati stili narrativi, è in grado di presentare un intimo resoconto del rapporto tra lo scrittore e il mondo reale. Infatti si distingue subito per la sua profonda cultura e lo sguardo da eterno scanzonato che pervade uno dei tanti suoi libri più significativi, purtroppo non tradotto in italiano: Romanzo di produzione, Termelési-regény (1979), parodia del socialismo reale di stampo postmoderno, nel quale lo scrittore descrive la vita aziendale, mettendone in risalto l’inefficienza, la scarsa preparazione degli impiegati e, soprattutto, l’ambigua figura del «compagno direttore/dittatore».

A far conoscere Péter Esterházy in Italia è stata Marinella D’Alessandro che, nel 1988, traduceva per le Edizioni e/o un libro di poco più di un centinaio di pagine dal titolo: I verbi ausiliari del cuore, nel quale all’interno di pagine listate a lutto si compivano storie parallele. Nella prima parte il figlio ricorda la madre da poco scomparsa, nella seconda parte – dopo una pagina interamente nera – al figlio si sostituisce la voce narrante della madre. «Pur essendo un virtuoso, anzi un autentico giocoliere, ne I verbi ausiliari del cuore Esterházy lo è nel senso migliore del termine. Il gioco, in questo caso, non è fine a se stesso (non è puro compiacimento della scrittura all’interno di uno “spazio grammaticale” dilatabile all’infinito che rappresenti l’unica pietra di paragone del testo) ma serve a dare distanza e diventa esercizio di libertà: di una libertà creativa essenziale sempre e ovunque, ma forse qui – a causa dell’argomento affrontato – ancora più che altrove», scrive la traduttrice nella postfazione al libro.

A seguire Garzanti, il suo secondo editore italiano, pubblicherà Il libro di Hrabal (1991), effettivamente dedicato al celebre scrittore praghese Bohumil Hrabal; La costruzione del nulla (1992), sempre nella traduzione di Marinella D’Alessandro, una raccolta di sedici scritti brevi pubblicati «negli anni della caduta dei muri»; poi Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn (giù per il Danubio), un viaggio lungo il Danubio che prende spunto da una lettera di Heinrich Heine a Karl Marx. Con il passaggio al terzo editore italiano, Feltrinelli, viene dato alle stampe Harmonia Cæelestis (2003), tradotto da Antonio Sciacovelli e Giorgio Pressburger, che lo ha anche curato, un romanzo che racconta seicento anni della storia di famiglia nella prima parte e l’oppressione del regime comunista nella seconda parte. A due anni di distanza, viene pubblicata L’edizione corretta di Harmonia Cæelestis perché Esterházy scopre – consultando gli archivi di stato – che suo padre è stato un informatore del regime: «Ha tradito noi, se stesso, la sua famiglia, il suo paese», scrive. Nel 2008 esce Una donna, tradotto da Marzia Sar e rivisto da Pressburger, 97 mini racconti dedicati ad altrettante donne o, forse, a una sola. L’ultimo libro pubblicato in italiano è Non c’è arte (2012), dedicato alla madre. In esso lo scrittore si sofferma su due eventi chiave della storia dell’Ungheria: la rivolta del ’56 e la «squadra d’oro», la nazionale del ’54.

Péter Esterházy è stato una figura fondamentale della vita culturale e sociale ungherese che ha fatto sentire la sua voce in un modo sempre pacato. Lo ha fatto esprimendosi in ogni occasione all’insegna della tolleranza, del rispetto e della comprensione reciproca, senza rinunciare mai a quella vena ironica che ha contraddistinto tutta la sua vita. Ieri sera amici, colleghi, lettori di Péter Esterházy hanno colmato la grande sala del Museo di Storia letteraria Petofi per ricordare lo scrittore leggendo passi delle sue opere.