Il termine «pregiudizio» è assai insidioso, sia nell’etimo che nelle sue ricadute teorico-pratiche. Produttore di danni, esclusioni e conseguenti ancorché legittime rivendicazioni, il terreno che precede il giudizio è infatti abbastanza articolato. Altrettanto dicasi a proposito della solida impronta dello stereotipo che, nella sua fissità, riporta all’immobilismo dei ruoli e delle relative sorti che avrebbe l’ardire di prevedere e traghettare. Di questo e molto altro è imbastito l’ultimo volume di Paolo Ercolani, Contro le donne (Marsilio, pp. 318, euro 17,50) che sostanzialmente si attesta nel piano intermedio di quel pensiero critico veicolato attraverso un linguaggio divulgativo, cioè leggibile da tutte e tutti.
Non si tratta quindi di un approfondimento esclusivamente scientifico (e questo è un bene), l’esercizio di Paolo Ercolani è invece rivolto soprattutto a quanti si potranno riconoscere, con un pizzico di divertito sadismo quando non di schizzinosa ritrosia, nelle osservazioni di filosofi del calibro di Aristotele o san Tommaso ma anche Hegel. E ancora più avanti, ça va sans dire, perché l’elenco come è noto a chi ha studiato o letto qualche classico inserito nel canone occidentale, è piuttosto generoso. Il pericolo in agguato è tuttavia insito nelle stesse modalità in cui l’odio maschile nei confronti delle donne ha preso corpo per poi storicizzarsi; perché pesca proprio da un immaginario, anche detto di sottocultura scadente – simbolicamente ed emotivamente – che a ripercorrerne la storia non sposta niente. Certo si può sistemare in un prima e un dopo in linea di una qualche utilità di «censimento critico» ma resta inerte, non scassina niente di quel pregiudizio a cui vorrebbe dare battaglia. A parte il tentativo di riaffermare, ce ne fosse bisogno, un desiderio paritario e automoderato per cui «le donne», bistrattate dalla storia e dall’altro sesso, sono delle svantaggiate da riabilitare e risarcire in tutti i modi possibili. E hanno pari dignità e pari libertà e sono pari in tutto, insomma. Come se cioè all’emancipazione facesse seguito di necessità la libertà ed esistessero «le donne» e «gli uomini», potendone discettare collettivamente quali appartenenti a una specifica categoria o macro-area di riferimento.

Da un punto di vista culturale è tuttavia molto utile sapere, soprattutto per chi non ha frequentato i decenni di produzione critica femminista, lo ha fatto maldestramente o in nome di un saccheggio più o meno consapevole, in che temperie ha attecchito la misoginia. Al centro è infatti quell’odio quasi senza rimedio che andrebbe decostruito rinunciando a una parte dell’esposizione mediatica «esperta» e praticando esperienze relazionali di senso. O decidendo di fare proprio di quelle narrazioni, a partire da sé, il tessuto di una discussione pubblica e quindi politica. Da un punto di vista cronologico, è pur vero che il baratro che si presenta è agghiacciante e il volume di Paolo Ercolani ha il merito di averlo messo in luce, con gli strumenti della collazione testuale e di un tragitto storico-culturale a cui tra l’altro viene allegata una vasta e utile bibliografia – in molti casi riportata all’interno del libro e in altri come sfondo teorico.
L’autore presenterà il suo libro al Festivaletteratura di Mantova domani, insieme a Giuliana Sgrena che parlerà del proprio «Dio odia le donne» (Aula magna dell’Università, ore 17)