120 copertine di dischi, una vasta produzione di dipinti e disegni, una trentina tra corti, medi, videoclip musicali, spot pubblicitari e, naturalmente, un’intensa attività fotografica, basata soprattutto sul ritratto. Difficile classificare Mauro Balletti anche se, nell’inconscio collettivo, il suo nome viene immediatamente associato a quello di Mina, vale a dire a una figura quasi mitologica, forse la più grande icona della storia musicale italiana. In realtà non solo musicale e non solo italiana. Dal 1973 Balletti è praticamente l’unico autorizzato (alternandosi a volte con Gianni Ronco) a riprodurre, rielaborare, reinventare e spesso a stravolgere l’immagine della cantante. In primis attraverso le cover degli album (oltre una settantina), sempre originali e di forte impatto visivo, raffinate ed eccessive al tempo stesso, fino a spingersi ai confini della provocazione. Altro che Madonna, altro che Lady Gaga. Balletti nel rifondare l’iconografia di Mina, ha compiuto una piccola rivoluzione pitto-grafica, anticipando tendenze e stilemi successivi. Se le cover all’estero sono una forma d’arte celebrata nei musei – pensiamo a quelle dello Studio Hipgnosis per i Pink Floyd – in Italia nessuno, colpevolmente, vi ha mai prestato troppa attenzione e non è stata ancora scritta la storia che meriterebbe. E in questa storia Balletti figurerebbe tra i protagonisti.
Ogni immagine di copertina è un’opera d’arte a sé, ma anche un prototipo di comunicazione visuale, che racchiude un piccolo universo e sintetizza una filosofia: l’estetica dell’assenza. Ma, come scriveva il poeta Attilio Bertolucci, «assenza più acuta presenza». E così l’esprit di Mina, attraverso un’infinita galleria di ritratti, arriva al pubblico in maniera non meno dirompente della sua voce sublime, anche se – qualsiasi metamorfosi subisca – il volto di Mina rimane inconfondibile. Mina barbuta (Salomé), Mina scarabocchio (Facile), Mina picasso-matissiana (Ti conosco mascherina), Mina espressionista (le foto interne di Sorelle Lumière con la citazione da M di Fritz Lang), Mina post-human (Lochness), Mina barocca formato collage (Canarino mannaro). A volte l’immagine è di tipo concettuale-linguistico, come sulla copertina di Leggera, dove è un’atleta che taglia il traguardo o su quella di Olio, il cui titolo è inteso da Balletti come tecnica pittorica che evoca una Mina-Gioconda dalla texture craquelé. Altre volte il legame è puramente visivo come Bula Bula, dove la lunga treccia della cantante si lega alla proboscide di un elefantino, come un cordone ombelicale. E già immaginiamo risvolti onirici, esotici, narrativi.
Balletti però non è solo Mina, ha valorizzato l’immagine di altri protagonisti della musica pop nostrana come Renato Zero, Ornella Vanoni, Marcella Bella, Enrico Ruggeri, i Pooh, Anna Oxa (per quest’ultima ha girato anche due raffinati videoclip come Io non so dove? e Prendila così). Balletti non nasce come grafico ma di fatto lo è, essendosi inventato un mestiere e uno stile; non ha studiato fotografia eppure è diventato giocoforza un fotografo, appena ventenne, spinto proprio da Mina che nel 1973 gli chiese di realizzare alcuni scatti sul set della pubblicità per la cedrata Tassoni. Ricorda per certi versi Jean-Paul Goude, poiché – come il creativo francese – non solo opera negli stessi campi espressivi (dalla fotografia di moda alla pubblicità, dalla grafica alla videomusica) ma mette al primo posto il disegno. Suo padre gli ha trasmesso la passione per la pittura e, prima di lui, era artista suo nonno.
Mentre in tutti i negozi si può trovare Le migliori, l’ultimo album di Mina in coppia con Celentano (cover Balletti), in queste settimane su Sky Arte è in programmazione un bel documentario a lui dedicato (voluto da Massimiliano Pani e diretto da Gianluigi Attorre). Inoltre, dal 2 al 16 febbraio, presso lo Spazio Kryptos di Milano (via Panfilo Castaldi 26) è possibile vedere una selezione di opere di Mauro Balletti in cui la fotografia si incontra con la storia dell’arte. L’artista milanese è infatti partito da artisti come Caravaggio, Picasso a Lucien Freud, per creare personalissime visioni dove fotografico e pittorico dialogano e si fondono insieme.

Chi è Mauro Balletti?
Mi considero un borderline, ma sono una persona libera. Non ho mai aperto uno studio con collaboratori fissi, ma cambio negli anni gli assistenti, perché ovviamente molti diventano autonomi e iniziano la loro attività di fotografi. Vivo nel mio atelier e non amo muovermi, viaggiare. Ero così anche da bambino, odiavo andare in vacanza.

In realtà è piuttosto sorprendente, da un creativo del tuo livello, che vive a Milano e opera nel mondo della moda della musica, ci si aspetterebbe di trovarsi di fronte una persona poco disponibile e molto snob; mentre tu sei schivo, riservato e soprattutto modesto.
Posso permettermi, miracolosamente, di fare ciò che voglio e il mio lavoro mi ha sempre dato da vivere. Non devo frequentare per forza qualcuno o bazzicare determinati ambienti. Per esempio – pur lavorandoci come fotografo – sono insofferente al mondo della moda. Forse è per questa ragione che non mi chiamano poi così spesso. Lo trovo fatuo, esasperato, basato su una scala di valori che non condivido. Certo, lo rispetto, anche perché è un sistema dove si fatturano milioni e milioni di euro, ma c’è troppa isteria. Hai presente Il diavolo veste Prada?

Qual è la definizione che ti corrisponde di più? Artista, art director, creativo, fotografo?
Un mix di tutte queste cose, ma non mi piacciono troppo le distinzioni settoriali. Direi che sono un artigiano dell’immagine.

C’è un tuo lavoro dove sei riuscito meglio che in altri a far interagire disegno, fotografia, grafica e anche immagine in movimento?
Sono soddisfatto del video che ho realizzato con i miei disegni per il singolo di Mina Questa canzone tratto dall’album Piccolino; l’animazione l’ha curata mio fratello Marco che lavora a Stoccolma come montatore e realizzatore di sigle ed altro per la tv svedese. Era molto bello fare i disegni, scansionarli e poi inviarli via internet a mio fratello e vederli pian piano animarsi. Ne è nato un video pieno di amore e tenerezza di cui vado fiero.

Tra le passioni della tua infanzia c’è quella del cinema.
Si, una volta alla settimana mio padre mi portava a vedere i film al Museo della scienza e della Tecnica di Milano. Ricordo di aver visto a 8 anni Ordet di Dreyer, Aleksander Nevsky di Ejzenstejn, il cinema di Bergman. Il vangelo secondo Matteo di Pasolini è stato un film che mi si è avviluppato nella retina e nella carne. Queste esperienze cinematografiche mi hanno fatto comprendere la grandezza dell’immagine. Quando ti misuri con questa scala di valori capisci cos’è l’arte ma anche cos’è ne è l’essenza . In seguito ho riflettuto molto sul perché mio padre abbia portato proprio me a vedere questi film e non mio fratello che è più grande di me di due anni e mezzo. Aveva intuito la mia predisposizione nei confronti delle immagini e mi ha aiutato a “capire”.

Una tua definizione di immagine.
L’immagine è la summa dell’intelligenza umana, sia da un punto di vista endogeno, sia da un punto di vista creativo. Io nasco dal disegno. Il disegno è istintivo, coinvolgente, immediato. Il disegno è terapeutico ed è il linguaggio che mi è stato insegnato in famiglia. Quindi tendo in modo naturale ad utilizzare la comunicazione visiva piuttosto che la comunicazione verbale.

Gli elementi che non devono mai mancare in una tua composizione.
Il coraggio, la cultura, l’ironia e il senso dello spettacolo.

In molti casi tu azzardi parecchio, fino a sfiorare il kitsch.
A me piace il kitsch, quello voluto e dichiarato, naturalmente. Quello che c’è in giro adesso è involontario. L’importante è conoscere i confini tra il buono e il cattivo gusto, avere il senso del ridicolo.

Quanto tempo impieghi a realizzare la copertina e il progetto grafico complessivo di un album?
Dipende dalla genesi e da quello che si vuole fare. E’ come la letteratura, ci sono i romanzi, i racconti, le poesie… Comunque diciamo che in media metto una quindicina di giorni per realizzare tutto. La parte più lunga riguarda l’impaginazione dei testi, ma per la grafica interna mi avvalgo anche di collaboratori. In genere con il mio segno cerco di essere sintetico e prediligo la rapidità dell’esecuzione. Sarebbe presuntuoso dire che questo procedimento sia sinonimo di bellezza, anche se adoro la sfida, verificare se in poco tempo e con pochi tratti riesco a ottenere qualcosa che mi piaccia.

Quindi deve piacere innanzitutto a te ancor prima che al committente.
Assolutamente sì, sono il primo critico di me stesso.

Hai realizzato però anche progetti complessi che avranno richiesto più tempo.
Beh sì, ad esempio per 12 (American Song Book) ho realizzato – con l’aiuto di Gianni Ronco che ne ha fatte otto – dodici copertine differenti, infatti non è stato facile convincere la Sony, ma Mina può anche concedersi qualche lusso ogni tanto. Un altro progetto non facile da realizzare è stato forse l’album componibile MinaCelentano, che ha richiesto molto tempo per le autorizzazioni della Disney, i disegni realizzati da Ronco, le illustrazioni interne, ecc.

Come inizi a lavorare sull’immagine di un album, ascolti le tracce?
No. A volte sento il disco dopo aver ideato la copertina.

Quindi la musica non è per te fonte di ispirazione.
Al contrario, nel mio lavoro di artista mi aiuta, mi distrae. Ascolto molta musica, da quella ricercata alla lirica al jazz.

Mina di solito ti lascia carta bianca?
In genere si: Mina si fida, ma dice ovviamente la sua. In alcuni casi un’idea può essere concordata insieme. È una persona di rara intelligenza e cultura. Anzi, direi che Mina è l’essere umano più intelligente che io conosca, dotata di un’incredibile intuizione artistica. Lei è una che osa, che sperimenta, perché non vuole annoiarsi e neppure annoiare gli altri.

A quale copertina sei maggiormente legato?
Beh, naturalmente a tutte le copertine di Mina. In particolare, forse, Catene.

Rane supreme, dove il volto di Mina si fonde con il corpo di un culturista?
Anche. Quella è venuta fuori in fretta e mi ha dato grande soddisfazione, perché non ho dovuto faticare. E’ stata realizzata come si suol dire “a occhio”, in un giorno, dentro la camera oscura.

Erano ancora i tempi in cui lavoravi manualmente, con il collage. Poi è arrivato il computer.
Ricordo, alla fine degli anni ’80, di aver visto un articolo su “L’Espresso”, illustrato con un fotomontaggio realizzato al computer che raffigurava New York sommersa dalle acque. Due anni dopo si sarebbe diffuso photoshop. Ho pensato: finalmente ho finito di tagliare e incollare.

Non rimpiangi l’epoca analogica?
Non c’è differenza. Le cose belle si fanno con le forbici così come col computer. Diciamo che in digitale accorcio i tempi di produzione, ma se fai molte varianti anche con il computer ci vuole tempo. Io comunque faccio poche varianti perché solitamente ho le idee chiare, so cosa voglio.

Quindi non ti capita spesso di sottoporre qualche versione alternativa a chi ti commissiona un lavoro…
Beh, può capitare di realizzare alcune varianti, poiché al cliente piace poter scegliere, ma ovviamente le varie versioni mi piacciono tutte, altrimenti non le presento.

Come scegli un font per la copertina di un disco?
Il font è occupare spazio all’interno di una cornice e a me piace l’occupazione intelligente dello spazio. Ho una predilezione per figure come quella di Bodoni o della grafica americana o di quella giapponese, che ha reinventano lo spazio. Un altro modello di riferimento possono essere i poeti che dispongono le parole in un certo modo.

Ci sarà però qualche grafico che apprezzi.
Nessuno in particolare, comunque compro o sfoglio in libreria molti libri di grafica.

Tra i fotografi ne avrai qualcuno che preferisci.
Richard Avedon, Irving Penn, Nick Knight.

Restiamo sulla fotografia. Come nasce e come imposti una campagna pubblicitaria, un servizio di moda o un progetto fotografico di carattere più personale?
La prima cosa è trovare l’idea di base da realizzare, ma in assoluto la cosa più importante è trovare il viso e la persona che sarà protagonista del servizio fotografico. Tutto dipende da chi si fotografa. La magia è “umana” e quindi si devono cercare persone magiche, altrimenti la foto sarà banale. Lo stupore che suscita l’immagine scaturisce soprattutto dalla persona che si relaziona con te davanti all’obiettivo.

Prediligi più il colore o il bianco e nero?
Il cinema in bianco e nero per esempio mi sconvolge, mi devasta più di quello a colori. La scelta del bianco e nero mette in risalto la dimensione onirica, legata all’inconscio. Il bianco e nero non toglie, anzi aggiunge alla fantasia, poiché ti suggerisce qualcosa in più. L’ultimo film in bianco e nero che mi ha molto affascinato è L’uomo che non c’era dei Cohen. Quando lo vidi in sala, due ragazzi accanto a me esclamarono: “Oh no, è in bianco e nero!”. Lo hanno vissuto come un impoverimento, una sottrazione. Ma non era affatto così. E’ un po’ come col disegno: mi piace vedere gli schizzi, i bozzetti dei pittori, perché mi fanno intuire come poi si evolverà l’immagine successiva, definitiva.

E riguardo al colore, cosa ti piace di più?
Amo pittori come Morandi che usano il colore in modo discreto, ma anche il colore spavaldo della pittura moderna. Del resto anche nel passato alcuni artisti usavano il colore con incredibile coraggio: penso gli angeli rossi di Van Eyck o al Beato Angelico. Per me il colore è come la musica. Varia, deve variare.

Da cosa deriva il tuo amore per Picasso?
Ho sempre prediletto la rilettura dei classici e ritengo Picasso il più grande rivisitatore della storia dell’arte, dalla pittura antica ad Ingres al Divisionismo. L’ha mangiata, digerita, l’ha resa “picassiana”. E’ di una grande modernità, anzi è post-moderno ante litteram.

C’è qualche aspetto della pittura e del disegno che vorresti sviluppare maggiormente in futuro? Un progetto nel cassetto non ancora realizzato?
Mi piacerebbe realizzare una serie di grandi “Annunciazioni”, adoro questo tema; credo sarà uno dei miei prossimi lavori. Annunciazioni ambientate ai nostri giorni.

Sei anche l’unico ad aver filmato Mina in un mediometraggio che documenta il suo lavoro in sala di incisione. Era dal 1978 che non appariva sotto forma di immagine in movimento.
Sì, esatto, Mina in studio è stato girato in tre pomeriggi, senza prove di luce, con tre operatori, e con l’apporto del direttore della fotografia della Rai Corrado Bartoloni che aveva lavorato con Mina nelle trasmissioni di Antonello Falqui. Voglio aggiungere che Mina ha un rapporto unico con la luce, come del resto tutti i grandi interpreti: lei plasma la luce, la trasforma. E’ qualcosa difficile da spiegare. Una magia. La cosa paradossale è che solo il secondo giorno mi sono accorto di non aver mostrato a Mina neppure un’immagine del girato, né lei me lo aveva chiesto. Cioè erano 23 anni che lei non appariva in video e non ha sentito neppure la curiosità o la preoccupazione di vedere il risultato.

Hai girato quasi una ventina di videoclip (per Oxa, Ruggeri, Capossela e altri). Cosa pensi della videomusica di oggi in generale, la guardi?
Guardo tutto e sono decisamente onnivoro verso ogni tipologia di immagini e nella fruizione della musica. La ricerca nei videoclip, devo dire, è un po’ diminuita. Cerco il “nuovo”, sempre e solo quello.

Come mai Mina (tranne in un paio di occasioni) non ti affida mai la realizzazione di un video musicale (senza di lei) per promuovere un suo singolo?
Oddio non lo so. Forse capiterà la giusta occasione.

Vent’anni fa hai girato il tuo unico cortometraggio narrativo, il surreale Fasten Seat Belts con Benedetta Mazzini e Massimo Popolizio. Hai mai pensato di girare un lungometraggio a soggetto?
Sì, mi piacerebbe tanto e ci ho anche pensato tanto. Ma bisogna lottare molto per portare avanti i progetti cinematografici, non so se ho questa forza. In verità proprio in questi giorni sono venuto a Roma per un progetto più televisivo che cinematografico. Ma tutto è possibile.