C’è stato un tempo dove Milano era una città da bere. Il cocktail preferito era a base di facili affari e bella vita da consumare in una metropoli dalle velleità cosmopolite, che guardava al centro dell’Europa e considerava il resto dell’Italia una zavorra dalla quale liberarsi. Oppure come uno Stato da depredare, attingendo dalla sue case finanziamenti per opere che dovevano arricchire imprese, personale politico vorace e burocrati pronti a varcare le sliding doors che dal lavoro nello Stato li avrebbe condotti ad occupare posti di rilievo nelle imprese da loro beneficiate di cospicue commesse. In quella Milano, da lì a pochi mesi travolta dal ciclone tangentopoli, erano pochi gli spazi di resistenza. Uno di questi era il Leoncavallo, uno dei centri sociali più «antichi» di Italia. Occupato negli anni Settanta, il Leoncavallo aveva conosciuto l’uccisione di due militanti, Fausto e Iaio, omicidi ancora senza mandanti e nomi dei carnefici. Era sopravvissuto al giro di vite della repressione. Stava lì, come un fortino assediato. Gli abitanti del quartiere lo tolleravano; o lo osteggiavano apertamente. Nell’agosto del 1989 fu sgomberato.

La discontinuità da trovare

Sono passati quasi 30 anni da quelle, l’equivalente di una vita o di un’era geologica visto come viene triturata, ricombinata la Storia da parte dai media. Ora la casa editrice milanese Shake ha mandato in libreria un diario di quello sgombero (Fiamme e rock’n’roll di Bruno Segalini, pp. 176, euro 15).

Il primo quesito che il libro pone è: chi può essere interessato a ricordare quei fatti, visto che anche molti dei militanti del centro sociale milanese hanno consegnato all’oblio la loro esperienza politica? Il secondo riguarda il rischio del «reducismo». Detto più aspramente: cosa racconta al presente le vicende del Leoncavallo e dei centri sociali? Poco, anzi molto. Poco se si guarda ai centri sociali come un modello da riproporre. Molto se si dipana la matassa che ha cominciato a prendere forma proprio allora, con la precarietà che prende forma, che le metropoli diventano lo spazio «integrato» di una produzione della ricchezza diffusa, di movimenti sociali che non vanno quasi mai oltre la soglia dell’opinione pubblica, non riuscendo a consolidare un agire politico che vada al di là della contingenza.

Da questo punto i vista i centro sociali usciti dagli anni Ottanta parlano al presente, ma in termini di obbligato superamento di quella esperienza. Se pensati solo come fortini assediati o oasi dove fermarsi prima di tornare a vivere, lavorare, amare nella metropoli-fabbrica i centri sociali non hanno proprio nulla da dire. Quello che serve sviluppare è una «storia del presente», ma non nel senso di inserire quelle vicende nella lunga durata, bensì di deviare, interrompere lo sviluppo lineare della Storia, cioè dello status quo, per affermare pratiche di libertà e trasformazione. Più che cercare continuità, occorre dunque indagare le discontinuità che hanno scandito gli anni successivi. Non serve cioè un’epica del passato rivoltoso, ma una linea di condotta sul presente. Fiamme e rock’n’roll preferisce una via mediana, quella del ricordo.

L’autore di questo diario faceva parte di una band musicale che aveva nel Leoncavallo il luogo dove provare, registrare, senza che nessuno chiedesse adesione alla linea politica. Il proprietario dello stabile occupato chiedeva da tempo lo sgombero del Leoncavallo. Era la potente famiglia Cabassi, oscillante tra finanza e speculazione immobiliare. Erano locali dismessi, poveri e forse per questo gli occupanti pensavano che tanto appetibili, dal punto di vista economico, non lo erano.

La voce narrante parla di una Milano svuotata, di prove da fare e di un tour da organizzare. E quando cominciano a girare le voci dello sgombero programmata per ferragosto sono in pochi a dare credito all’eventualità di una azione di polizia. Chi ci crede sono i militanti del comitato di occupazione. Sono loro che organizzano un’assemblea chiamando a raccolta tutti gli altri centri sociali e case occupate. .

Il diario racconta la notte precedente e lo sgombero vero e proprio. Pagine divertenti che si fanno divorare. Chi cerca l’epica della resistenza alle «guardie» in queste pagine non la trova. La decisione di resistere allo sgombero è figlia di un ragionamento semplice: il Leoncavallo è una zona autonoma permanente che seppur precaria va difesa.

Lo stile della narrazione è metropolitano, senza nessuna concessione alle belle lettere. Ci sono dialoghi sincopati sul che fare e cosa pensare. L’ironia, il sarcasmo servono a sdrammatizzare una situazione che gli occupanti e i solidali non sanno bene come fronteggiare.

Lo sgombero avviene con un grande dispiegamento di forze. La resistenza si consuma in poche ore. Molti giovani saranno fermati, pochi però gli arresti immediati. Assieme alle forze dell’ordine arrivano le ruspe, che buttano giù gli edifici, lasciando macerie. Il Leoncavallo e distrutto nelle fondamenta. Non sarà così. La manifestazione nazionale convocata tre giorni dopo la cacciata vedrà arrivare a Milano più di diecimila persone, con successiva nuova occupazione degli spazi e la conseguente ricostruzione del centro sociale. Quella che era stata una sconfitta «militare» si è trasformata in un successo politico. Gli anni Ottanta erano davvero finiti.

Riti di passaggio

L’autore sceglie i tasti dell’ironia, del distacco, senza però mostrare nostalgia. Il suo è un documento che testimonia un passaggio esistenziale ma anche politico. Non è dato sapere se il gruppo musicale è andato avanti, se è come si è sciolto. Non c’è spazio per il dopo. L’attenzione si concentra sulla popolazione metropolitana che frequentava il Leoncavallo, oscillante tra marginalità sociale e inserimento in un tessuto produttivo a medio contenuto «cognitivo». Lo sgombero rappresenta un passaggio. Da lì a poco tangentopoli spazzerà via una élite economica e politica ormai inadeguata ai processi di accumulazione e produzione di ricchezza. Il Leoncavallo non sarà più un fortino assediato, ma luogo di aggregazione sociale e politica che non vuole più essere residuale, marginale. Ci saranno altre prove di forza, altri sgomberi, ma niente più sarà come prima. Ma questa è un’altra storia che attende ancora di essere interrogata.