Quando, nel 1860, Rosa Bonheur si stabilisce nella proprietà di By, nei pressi della foresta di Fontainebleau, acquistata con la vendita del suo capolavoro Il mercato dei cavalli è all’apice della gloria. Più che una fuga dalle mondanità, il suo è un ritorno alle origini. Primogenita di Raimond, pittore, e di Sophie, insegnante di piano, nasce come Rosalie-Marie a Bordeaux il 16 marzo 1822, e manifesta molto presto un dono per il disegno, che pratica con ogni mezzo ritraendo gli animali della campagna in cui cresce felice, fino al trasloco a Parigi, nel 1829, per raggiungere il padre sansimoniano.
Qui la morte della madre, nel 1833, consumata dai lavori malpagati per sostentare i quattro figli piccoli, dopo l’entrata del marito nella comunità di Menilmontant di Prosper Enfantin (che esclude le donne malgrado la conclamata «fede» nell’emancipazione femminile), segna profondamente l’artista, allora undicenne, tanto più che sua madre soccombe alla fatica e alla miseria, mentre il padre «si occupa della salvezza del genere umano». A questa madre, «allevata come una principessa» e seppellita in una fossa comune per l’indigenza familiare, dedicherà un vero e proprio culto, ben decisa tuttavia a non seguirne il destino.
L’influenza del dramma materno sulla sua vita è determinante, così come il pensiero paterno secondo cui «gli uomini e le donne che vogliono dedicarsi a una grande causa devono fare la scelta del celibato». La sua grande causa sarà l’arte, «missione divina» cui consacrerà tutta la vita. A tredici anni diventa allieva del padre che le indica come modello «da superare» la nota ritrattista Elisabeth Vigée-Lebrun. La giovane apprendista decide invece di «rendersi celebre» rappresentando ciò che ama di più: gli animali e la natura, per lei «unica ispiratrice», e «maestra» ancor più dei grandi del Louvre che non si stanca di studiare. È la strada giusta.
A soli diciannove anni, è ammessa ad esporre al Salon di pittura e di scultura del 1841. Elevando all’eccellenza i canoni della scuola realista, apre anche nuovi orizzonti per le pittrici del suo tempo, fino ad allora relegate ai ritratti e quadri floreali, e diventa un modello per loro. Ma non solo. Quando vince la medaglia d’oro al Salon del 1848, Théophile Gautier la pone «sulla stessa linea di Paulus Potter, il Raffaello degli ovini» sottolineandone «la verità e l’osservazione perfetta». Nel 1849, il magnifico Labourage Nivernais (oggi al Musée d’Orsay), che aveva dipinto per celebrare «l’arte di tracciare i solchi da cui origina il pane che nutre l’intera umanità», è salutato unanimamente dalla critica come un capolavoro.

Alleanze femminili

Al Salon del 1853, davanti la forza del monumentale Le Marché aux chevaux (oggi al Metropolitan di New York), che le procura un «successo folle» e la rende celebre nel mondo intero, la giuria si dice «senza mezzi» per «ricompensare questo merito eccezionale» e ne decreta l’ammissione a tutti i Salon a venire. Ma la sua fama è ormai tale che dopo il Salon del 1855, dove presenta La Fenaison en Auvergne (oggi nella sala Rosa Bonheur del castello di Fontainebleau), non potrà più parteciparvi, perché tutte le sue opere, vendute in anticipo, sono subito spedite ai collezionisti esteri, principalmente in Inghilterra e Stati Uniti.
Il segreto del suo successo? Grande talento, forte determinazione, lavoro instancabile, e profonda fedeltà alla madre, sublimata nelle alleanze femminili che suggella lungo tutta la sua esistenza. Emblematico il suo rifiuto del «consiglio» del padre, dopo i primi successi, di firmarsi «Raimond» col pretesto che il cognome (Bonheur in francese significa felicità) sembra uno scherno alla loro infelicità. Per la giovane artista tale scelta sarebbe invece un insulto alla madre, ed è proprio per «associarla alla sua celebrità» che a partire dal 1844 firmerà i suoi dipinti col diminutivo che le aveva dato lei: Rosa.

Il trionfo rurale

Se il padre le ha insegnato il mestiere è la madre che per prima ne ha riconosciuto e incoraggiato il talento, e che, ne è convinta, ancora «ispira, protegge e guida» i suoi passi. L’amore per lei è il filo rosso della sua relazione con Nathalie Micas (che aveva con essa anche una vaga somiglianza fisica), con cui divide la vita per più di cinquant’anni. Quando s’incontrano Rosa ha quattordici anni e Nathalie dodici, «anime gemelle», saranno ben presto inseparabili. Nathalie condividerà con lei il suo primo studio «tutto per sé», aiutandola nella preparazione dei quadri e nella gestione amministrativa che finirà per assumere totalmente (insieme alla gestione dell’immagine dell’artista, suggerendole, tra l’altro, l’adozione di un originale completo di velluto nero che indosserà nelle sue apparizioni pubbliche).
Insieme viaggiano in Francia e in Europa, dalla Germania al Regno Unito, dove in occasione della sua prima mostra, nel 1856, Rosa Bonheur fa una tournée trionfale (il Daily Mail, la definisce «il più grande pittore di scene rurali di Francia e senza dubbio del mondo»). Formata alla pittura dall’artista, oltre ad occuparsi dei cieli nei suoi quadri, Nathalie cura la terra (dell’orto e del giardino) e gli animali, esperta di medicina e fotografia, è anche inventrice di un sistema di freni per locomotiva, sperimentato con successo nel 1862 nel parco della proprietà, dov’era stata installata una piccola linea ferroviara a questo scopo.
Con lei e la madre di lei vedova, Henriette, Rosa Bonheur forma una nuova famiglia, tutta femminile, che costituisce la base della sua solida carriera. La sorella e la madre elettive s’incaricano, infatti, di ogni aspetto pratico dell’esistenza comune, permettendole di consacrarsi interamente alla sua arte. «L’amicizia dell’anima» che le unisce è superiore ai legami della famiglia d’origine perché «frutto della nostra scelta» spiega l’artista, che definisce le due donne «la mia stella polare».
In onore di questo sodalizio la proprietà di By sarà per loro la «dimora della perfetta amicizia». Dopo la morte della madre Micas nel 1875 e gli anni bui seguiti alla morte di Nathalie, nel 1889, Rosa Bonheur rinnova nell’ultimo anno di vita il suo modello esistenziale della «perfetta amicizia», con la pittrice statunitense Anna Klumpke.
Nata nel 1856, e già affermata in patria (tra gli altri ha eseguito un ritratto della femminista Elisabeth Cady Stanton), l’artista deve proprio a Rosa Bonheur la sua vocazione, scoperta davanti al Labourage Nivernais, di cui farà una copia che le permetterà di pagarsi il primo anno di studio all’accademia Julian. S’incontrano già nel 1889, ma è solo quando sarà ospite della Bonheur per farle un ritratto, a partire dal giugno 1898, che le loro affinità elettive si confermano. Oltre a notare la somiglianza fisica con la madre perduta, l’anziana artista vede nella più giovane «sorella di tavolozza», colei che saprà proteggere e trasmettere ai posteri la sua opera e memoria. Le affida quindi la redazione della sua biografia («Non sarete solo la mia voce, ma anche quella della mia cara Nathalie e potrete scrivere su di lei quello che lei non poteva dire di se stessa, voi ci completerete tutte e due»), e, chiamandola «figlia davanti alle Muse», la nomina sua erede universale (com’era stata a suo tempo Nathalie e lei stessa di Nathalie).

Missione in pericolo

Fa costruire nel giardino un nuovo studio destinato ad Anna, una volta che avrà terminato il suo ultimo capolavoro La Foulaison du blé en Camargue» (oggi al museo di Belle Arti di Bordeaux), opera monumentale lasciata in sospeso dopo la morte di Nathalie, che intende presentare all’esposizione universale del 1900. Sulla facciata dell’edificio sono ancora oggi visibili le iniziali scolpite delle due donne. La loro, spiega l’anziana artista, è «un’alleanza che comporterà delle responsabilità solo per noi stesse. Lavoreremo bene; ci guadagneremo da vivere ognuna per conto proprio e ci offriremo i piaceri che potremo procurarci col nostro lavoro».
Ma questo nuovo progetto di vita sarà brutalmente interrotto dalla sua morte improvvisa, a 77 anni, il 25 maggio 1899. Fedele alla sua «missione sacra», Anna Klumpke si attiverà su tutti i fronti per difendere e diffondere la memoria dell’«artista eminente», tra l’altro, conservando inalterato il grande studio, in stile neogotico, dove Rosa Bonheur ha realizzato gli ultimi quarant’anni della sua opera esigente.
Rimasto intatto per più di cento anni, aperto al pubblico dagli eredi di Anna Klumpke nella formula attuale da una trentina d’anni, questo patrimonio storico e artistico inestimabile rischia ora la dispersione, dopo la messa in vendita dell’intera proprietà, da parte dell’ultimo erede, nel luglio scorso. Istituzioni e associazioni si stanno attivando per tentare di evitare la disparizione di questo insostituibile veicolo di viaggio nel tempo per scoprire ciò che resta del quotidiano dell’artista. Qui, il suo ritratto realizzato da Anna Klumpke troneggia accanto all’ultima tela incompiuta, su una sedia gli abiti da lavoro, i colori sulla tavolozza, e i pennelli pronti all’uso, come se dovesse rientrare da un momento all’altro per terminare il dipinto. Alle pareti, fotografie, disegni, e ancora ritratti, tra cui quello di lei bambina realizzato dal padre. Lo sguardo determinato, la matita in mano, e per terra un foglio con una grande A (come arte?).

Fra i leoni domestici

I suoi animali preferiti sono ovunque, imbalsamati e rappresentati in pittura, fotografia, disegno, scultura (per non fare ombra alla carriera del fratello Isidore, l’artista smette di esporre le sue sculture al Salon, ma continuerà a scolpire tutta la vita). In una vetrina, il costume indiano dono di Buffalo Bill, la cui permanenza a Parigi nel 1889 col suo Wild West Show permette a Rosa Bonheur di studiare dal vivo quei «pellerossa» che da tempo l’appassionano.
Installatasi nel loro accampamento, moltiplica i disegni di questi «esseri così diversi da quelli che sino ad allora erano passati sotto i miei occhi», ricorda, deplorando «che siano stati condannati all’estinzione dall’usurpatore bianco». Nella stanza attigua, il «permesso di travestimento» del 1857, che le consente di «vestirsi da uomo», allora vietato alle donne per legge. Se ufficialmente il motivo è per ragioni di salute, in verità i pantaloni sono per lei solo un abito da lavoro, indispensabile per disegnare indisturbata nelle campagna, foreste, fiere, stalle, e mattatoi che frequenta per la sua arte. Sempre per praticità, del resto, sin da adolescente porta i capelli corti (con più di 80 anni di anticipo sulla «garçonne» degli anni folli). E, per avere modelli sempre disponibili, alleva in casa tutti gli animali che può. Dalla prima pecorella installata nell’esiguo balcone dell’appartamento paterno sino alla vera e propria «arca di Noé» del giardino della sua casa-studio della rue d’Assas a Parigi. Un’«arca» che amplierà a By.

L’anima bestiale

Al di là del grande atelier, il suo «vero studio» si estende a tutto il parco di quasi tre ettari, che ospita pecore, capre, mucche, cavalli, yak, cani, gatti, marmotte, scoiattoli, tartarughe, e persino una coppia di scimmie, diversi leoni addomesticati e un cinghiale. E, fuori le mura della proprietà, l’intera foresta di Fontainebleau con tutta la sua fauna si apre all’artista, che vi accumula gli studi «essenziali» ai lavori futuri. «Stavo bene in mezzo a queste bestie, ne osservavo con passione le maniere, e ho sempre guardato con interesse speciale l’espressione dei loro occhi, specchio dell’anima di tutte le creature viventi», confida ad Anna Klumpke. Non solo modelli, gli animali sono per lei «amici» preziosi, dotati di un’anima propria, che traspare fulgida nel loro sguardo così sapientemente immortalato. «Se non sempre le capiamo, le bestie, loro ci capiscono sempre», assicura. E aggiunge: «trovo mostruoso che le si dica prive d’anima. La mia leonessa mi amava molto, quindi aveva un’anima, ben più di certi umani che non amano affatto». E per amore degli animali diviene anche la prima socia della nascente società di protezione degli animali (come indica la tessera in una vetrina).
È in mezzo ad essi, nel giardino, che la sorprenderà l’imperatrice Eugenia, venuta a consegnarle di persona, nel 1865, la croce d’oro, distintivo di cavaliere della Legion d’Honneur, facendo di lei la prima artista insignita di quest’alta onorificenza nel suo paese. Questa e le altre innumerevoli ricompense, premiazioni e riconoscimenti nazionali e internazionali tributati a Rosa Bonheur nel corso della sua esistenza, non le hanno mai evitato gli attacchi, che s’intensificano particolarmente nei suoi ultimi vent’anni di vita. «Credo che i giovani me ne vogliano non tanto di esser vecchia, ma di essere una donna, non riescono a perdonarmi di aver mostrato in maniera chiara e netta che l’arte non ha sesso» conclude, rivendicando nondimeno la «grande e indomita ambizione per il sesso al quale sono fiera di appartenere, e di cui sosterrò l’indipendenza fino alla fine dei miei giorni».