Se ci si siede placidamente su una panchina di fronte al Tamigi, dalle parti del Millennium Bridge, lì a Southwark lungo la riva del fiume, la prima cosa che colpisce è la selva fitta di gru che colora il cielo di un rosso ferroso, come se ci fossero stormi di fenicotteri in volo a tracciare uno skyline in movimento, incerto tra le lusinghe della speculazione e la vitalità della crescita urbana che cerca di ordinare la giungla di grattacieli e quartieri in rapida ascesa. Londra è una città in continua espansione, che ridisegna audacemente se stessa ogni volta che può, sfidando i rischi della sua frenesia e anche i tempi di magra economica.

Può accadere così che, a una settimana dal referendum sulla Brexit – la decisione di uscire o meno dall’Europa Unita che i cittadini inglesi dovranno indicare il 23 giugno prossimo – Londra si risvegli sotto un cielo plumbeo, denso di pioggia, ma con una vertiginosa piramide tortile in più che reinventa quello scorcio urbano, portando con sé due piazze pubbliche, un giardino, la pedonalizzazione dell’area circostante e la scommessa di una partita vinta, seppure in netto ritardo rispetto le previsioni iniziali.

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È la New Tate, nuovo edificio che va a completare la «matrice» originaria, la Tate Modern, quella che si accomodò dentro la centrale termoelettrica in disuso da anni, cambiando per sempre i connotati di Bankside. La Switch House, concepita sempre dagli svizzeri Herzog & de Meuron (in collaborazione con il designer Jasper Morrison e con l’architetto del paesaggio Günther Vogt), si sviluppa su dieci piani che accrescono del 60% la superficie del «vecchio» museo e offre ai visitatori – all’ultimo livello – un panorama mozzafiato a 360 gradi su Londra.

Dalla sua, la nuova casa della creatività mondiale ha la forma triangolare ormai tipicamente «british» (vedi lo Shard di Renzo Piano) e sposa un’idea di trasparenza a dispetto del materiale scelto in continuità con l’altro edificio (anche se da principio era in vetro): la composizione geometrica dei solidi mattoni viene interrotta da aperture improvvise sul paesaggio, scorci poetici che citano l’orizzontalità della precedente architettura, collegata a questa più recente da una serie di passaggi interni, in modo che il pubblico possa aggirarsi fra le collezioni in maniera fluida e senza orologio alla mano.

Ricardo Basbaum
In realtà, questo nuovo museo nasce già adulto e conosciuto: avrebbe dovuto inaugurarsi nel 2012 per accompagnare le Olimpiadi, ma ha subìto una serie di slittamenti per mancanza di fondi. Quel raddoppio dedicato all’arte contemporanea, con un’attenzione particolare alla performance, alla fotografia e ai film, ha un costo che fa girare la testa: è lievitato fino a 260 milioni di sterline, di cui solo una cinquantina governativi, gli altri raccolti con varie donazioni, di fondazioni e singoli privati. Sembrerebbe essere dunque un’operazione di fantascienza pura; invece la New Tate, forte dei cinque milioni di visitatori – moltissimi under 35 – della Boiler House (la «sorella» Modern), guarda al futuro con la sfrontatezza dei potenti. E l’inaugurazione ufficiale, disseminata in questo weekend con cicli di performance ed eventi, coinvolge non un parterre di notabili e star, ma fa varcare la soglia alle scuole, puntando l’obiettivo sulle generazioni che cammineranno nel futuro.

Tematica, nei suoi allestimenti di installazioni e opere, è anche la New Tate, fedele alla rivoluzione del 2000 quando si abbatté il criterio cronologico a favore di un itinerario che implicasse il pensiero attivo di chi guarda, una partecipazione più comunitaria. A guidarla, sarà Frances Morris, già curatrice della collezione cui ha conferito un respiro sempre più internazionale. «All’inizio – ha affermato – si sono privilegiate opere che provenivano dal nord America e dall’Europa; oggi quella visione va integrata con le produzioni asiatiche e africane, che acquisiscono un grande spazio…». Morris ha voluto anche soffermarsi sul lavoro delle artiste, ormai protagoniste della scena contemporanea.

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C’è una sala a tema, appunto, che racconta «l’arte delle donne»: forse è un po’ un inciampo nel disegno generale e appanna l’immaginario «open» del museo, segnando un confine/ghetto che nel 2016 avrebbe potuto sciogliersi per mescolarsi più liberamente nelle trame della storia del Novecento e del XXI secolo. Inedito, invece, il progetto «Tate Exchange»: raccoglie esperimenti e proposte da realtà culturali le più diverse, che rompono le barriere museo-città. Si va dalle comunità di stazioni radio passando per le università, fino alle organizzazioni per la salute pubblica.

Così, i dieci piani della piramide si srotolano in osmosi con le altre gallerie della Boiler House, ma favorendo le installazioni e un’idea di museo «vivente», che interagisce con i suoi spettatori. Si preferiscono intere stanze con mostre personali piuttosto che assemblaggi invasivi e claustrofobici di opere. Nessuna bulimia e un tempo slow. Nel percorso, si incontra la pioniera Louise Bourgeois che accoglie l’inquietudine di un universo privato e collettivo nella sua apposita «room» dove non manca l’iconico ragno che scala il muro, mentre il franco-algerino Kader Attia approfondisce i legami coloniali da una prospettiva inusuale e sorprendente. L’artista ha realizzato con il cous cous un modellino di Ghardaïa, antica città algerina che Le Corbusier (riprodotto in una foto a parete) visitò nel 1931 riportando in Europa alcune soluzioni architettoniche. Le stesse che poi un suo seguace, Fernand Pouillon (anche lui ritratto in foto) riprodusse nei suoi progetti sociali per le periferie di Parigi, lì dove Attia è cresciuto.

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Kader Attia, Ghardaia

Gioca con la musealizzazione stessa portata all’estremo e l’impacchettamento dell’identità africana Meschac Gaba dal Benin, mentre di Hélio Oiticica (nato a Rio de Janeiro nel 1937 e morto nel 1980) viene proposta Tropicalia: nella piovosa Londra finisce un’ironica fetta di Brasile, in visione stereotipata, con sabbia bianca, favelas coloratissime e una gabbia che custodisce due pappagalli veri.