Inevitabile pensare al finale di Rogue One. Una sorpresa che assume il senso di un anticipo. Un futuro annidato fra le pieghe trascorse di un passato che ritorna digitalmente come segno di una presenza eterna. In questo ridefinire il tempo, riannodandolo e sciogliendolo, la saga di Star Wars ha creato delle meta identità. Non la banale identificazione o sovrapposizione fra corpo dell’interprete e ruolo/figura, quanto identità completamente nuove. Presenze dell’immaginario che sono radicalmente diverse dalle icone del divismo classico. Carrie Fisher era una di queste presenze. Nonostante abbia avuto una carriera ricca e articolata, Leia Organa è sempre stato altro da lei e al tempo stesso qualcosa di più di un semplice alter ego. Il rapporto complesso che lega questi corpi e le loro immagini alla rete degli affetti dei consumatori e, soprattutto, all’insieme delle relazioni e interazioni che ne definiscono la presenza nel sistema merceologico crea di fatto nuove possibilità.

 

 

Osservando la carriera di Carrie Fisher al di là di Star Wars, moltissima televisione soprattutto che comprende anche cose come 30 Rock, Sex & the City e Smallville, si riesce a leggere in filigrana, come in controluce, la «vera» storia di una post-diva. Un’immagine paradossalmente quasi invisibile nel suo essere parte integrante di una cultura: suo segno e racconto e, contemporaneamente commento. Non è caso che Wes Craven l’abbia voluta in Scream 3, clamorosa messa in abisso del sistema Hollywood, e che Joe Dante l’abbia ingaggiata per L’erba del vicino, film che rovescia l’ideologia del buon vicinato degli anni Ottanta.

 

 

 

Presenza critica dotata di un plusvalore d’immagine che è già discorso, Carrie Fisher si ritrova per esempio in cameo fulminei, come quello di Hook di Steven Spielberg (un bacio al volo su un ponte) o in ruoli quasi classici in Harry ti presento Sally. Carrie Fisher sembrava che ci fosse sempre. Come se fosse fatta della stessa materia delle immagini infinitamente plasmabili. E non è un caso che rivederla fulminea nel finale di Rogue One, che adesso assurge inevitabilmente a immagine epitaffio oltre che testamento, sembrava solo giusto che il film finisse così. Lei era della stessa materia del film che stavamo vedendo. La sua presenza, intreccio complesso di mitopoiesi, di cultura contestataria, nozionismo nerd e residui di nuova Hollywood, legittima(va) tutto quanto visto. Lo attirava nella sua orbita e lo rendevo vero. Partecipato. Segno di un mondo che è esistito e che abbiamo visto. In questo scambio continuo fra il fuori campo meta-testuale della sua presenza e la sua immagine, sempre gestito con sottile ironia, come se fosse solo un gioco, Carrie Fisher si è offerta come la più credibile post-diva. Conservando sempre l’equilibrio della danza delle sue numerose maschere.