La precarietà, stando alle retoriche neoliberiste prevalenti e agli sforzi di tutti governi italiani ammaliati dai fari alti della flessibilità e dell’insicurezza sociale, sembrerebbe rappresentare lo status incontestabile della società contemporanea. Superare questa retorica è doveroso. La sociologia può contribuire a denunciare le grandi ipocrisie del neoliberismo. Già Ulrich Beck denunciava l’irruzione della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione quale variante dello sviluppo capitalista, in costante espansione all’interno delle più mature società del lavoro occidentali. Sono milioni in Europa i lavoratori e le lavoratrici costretti ad una multiattività nomade, ossia a svolgere più lavori per riuscire ad ottenere le risorse economiche necessarie per vivere. La conseguenza è la trasformazione della società del lavoro nella società della precarietà e il consolidarsi di uno stato di insicurezza endemica quale elemento distintivo del capitalismo avanzato.
Il saggio Strategie di conciliazione famiglia-lavoro per i lavoratori atipici. Una rassegna della letteratura di Cavaletto e Musmanno, pubblicato sul n. 1/04 de «La Rivista di Servizio Sociale dell’Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali» approfondisce l’analisi spostando il focus dalle tematiche economiche classiche del lavoro e dei diritti a quella delle interferenze tra le traiettorie professionali e la quotidianità. Ciò ha permesso di mettere in luce le conseguenze dello smantellamento del sistema di garanzie che ha governato il conflitto tra lavoro e capitale nel XX secolo e le difficoltà del welfare italiano a riformarsi per garantire le nuove classi sociali dal baratro della povertà. La ricerca analizza in particolare i percorsi esistenziali dei giovani, delle donne e delle famiglie, e le conseguenze su di essi prodotte dal Pacchetto Treu del 1997, Legge Biagi del 2003 e dalla riforma Fornero.
I neo diplomati e neo laureati italiani, ad esempio, risultano destinati ad entrare nel mercato del lavoro con forme contrattuali atipiche, spesso impiegati in occupazioni frustranti e non formative, per periodi di tempo non prevedibili e senza alcuna garanzia della loro conversione in formule contrattuali protette. Queste condizioni sposterebbero in avanti il loro ingresso nel lavoro retribuito a causa dell’allungamento del periodo formativo, fatto di continui master, stage e corsi di formazione. La conseguenza è il parallelo allungamento del periodo di dipendenza dal nucleo familiare d’origine insieme a gravi difficoltà nel raggiungere l’autonomia abitativa, economic. Si manifesta un atteggiamento open-end in cui indipendentemente dalla situazione esistente si mantiene una via di uscita che evita l’impegno a lungo termine, a fronte di progettualità di corto respiro che accentuano la propria precarietà, scivolando nella spirale discendete del lavoro atipico. Venendo meno la possibilità di costituire una famiglia, si allontana parallelamente la possibilità di «investire nella genitorialità». Analizzando i tassi di natalità dei paesi europei negli ultimi dieci anni le due autrici registrano una duplice tendenza. Da una parte si troverebbero i paesi con elevata occupazione femminile e welfare «amico» delle famiglie, in cui la natalità è aumentata o almeno rimasta stabile. Dall’altra si troverebbero i paesi, come l’Italia, in cui ad un basso tasso di occupazione femminile si registra un welfare residuale e tassi di natalità tra i più bassi a livello mondiale. Emergono così tutti i limiti strutturali del welfare italiano che resta frammentario, scarsamente finanziato e con un sistema di sostegno al reddito quasi inesistente.
Il saggio pubblicato dall’Istisss si concentra anche su una delle retoriche giustificazioniste più diffuse del precariato secondo la quale esso garantirebbe supposti vantaggi alle donne. L’assunto risiederebbe nella strutturale instabilità che caratterizza da sempre l’attività occupazionale femminile, così giustificando la loro disponibilità naturale alla precarietà lavorativa. Si tratta di una rappresentazione ideologica. Si consideri ad esempio che per una donna precaria la scelta di avere un figlio genera l’involontaria uscita dal mercato del lavoro, peraltro spesso non temporanea. Inoltre, se anche la coppia è precaria, diventa inderogabile la necessità di avere redditi stabili, comportando il rinvio della genitorialità ad un momento di maggiore stabilità. La precarietà modificherebbe anche l’organizzazione tradizionale del tempo, impedendo la routine utile per l’esercizio dei ruoli genitoriali. I precari sono infatti più esposti alla flessibilità d’orario e a cambiare sede di lavoro.
All’aumento della precarietà, contro la quale bisognerebbe inaugurare una nuova stagione di lotta, non è seguita in Italia una revisione delle politiche di sicurezza sociale. Il sistema di «flex-security» italiano ha prodotto drammi sociali ai quali si somma l’incapacità del welfare di adeguarsi alle mutate condizioni occupazionali, generando un sistema di flex-insecurity sociale. È davvero il caso di dire, precari di tutto il mondo uniamoci.