Il problema dell’impatto ambientale esercitato dalla specie umana nel corso della sua storia evolutiva è il tema di maggior interesse di un libro recente titolato L’evoluzione dell’animale umano. Il terzo scimpanzé spiegato ai ragazzi (Bollati Boringhieri, pp. 252, 21 euro), scritto da uno dei più autorevoli biologi statunitensi, Jared Diamond, che cerca di coniugare tono accattivante e rigore metodologico. Schede di approfondimento originali e accurate arricchiscono il testo di storie che riguardano i misteriosi ritrovamenti nell’isola di Flores in Indonesia (umani alti meno di un metro e dal cervello molto piccolo), le imprevedibili estinzioni a catena in una foresta panamense o la rapida diffusione della lingua creola parlata dai bimbi hawaiani all’inizio del Novecento.

La ricostruzione dell’evoluzione umana, il focus del libro, è segnato invece da scelte discutibili, a cominciare dal tono confidenziale del testo, che nasconde più di un’insidia. A tratti, la mancanza di riferimenti bibliografici e della discussione delle fonti porta a una confusione tra generi letterari: più di una volta la divulgazione di risultati scientifici largamente conosciuti sembra cedere il passo all’asserzione apodittica di opinioni di parte, se non addirittura idiosincratiche. Ed è così che spesso il lettore si trova impantanato in amenità a dir poco disdicevoli: un intero capitolo dà per scontato che esistano «razze umane» per poi rassicurarci che queste si darebbero pure nelle altre specie animali; si afferma che con tutta probabilità la scelta del partner nei sapiens è legata a fenomeni di imprinting, cioè alle prime esperienze avute dopo la nascita poiché alcune ricerche mostrerebbero che tendiamo a scegliere persone che ci somigliano; Diamond continua il suo lavoro di rassicurazione ricordando che gli scimpanzé sarebbero anche loro animali dediti alla guerra poiché «xenofobi come gli umani».

Nel calderone evolutivo

Se si passa a contenuti di più ampia scala salta all’occhio una scelta teorica davvero impegnativa. Implicitamente Diamond propone di definire umane tutte le forme di vita che abbiano separato la loro linea evolutiva da quella dei nostri cugini più prossimi, gli scimpanzé. Tutte le forme di ominidi degli ultimi sette milioni di anni sarebbero da considerare parte del nostro mondo, cioè forme a vario titolo di umanità.

I vantaggi teorici della scelta sono comprensibili: con tanto tempo a disposizione si può immaginare la nostra evoluzione in modo fin troppo tradizionale, un lento e progressivo adattamento alle circostanze esterne in grado di assorbire anche i fenomeni più difficili da spiegare in termini darwiniani come la nascita del linguaggio o il consolidamento storico delle forme rituali più arzigogolate. Il prezzo della scelta è, però, salatissimo. Homo habilis ed erectus, Australopiteco e sapiens si mescolano in un calderone evolutivo rassicurante perché apparentemente privo di discontinuità ma talmente nebbioso da rendere confuso il senso stesso dell’aggettivo «umano».

Si tratta di specie diverse oppure no? Se non sono così diverse, quale sarebbe il significato di un albero genealogico pieno di distinzioni così ramificate da portare a distinguere «Neandertal, africani anatomicamente moderni e Cro-Magnon»? Perché escludere, allora, proprio gli scimpanzé dalla partita? Solo nella parte finale del libro emerge un punto teorico che avrebbe meritato forse maggiore centralità espositiva. A ben guardare, fa notare Diamond, le devastazioni ambientali di cui oggi la tecnica contemporanea ci rende protagonisti sono il capitolo più estremo di una vicenda cronica che riguarda la stessa struttura del rapporto tra gli umani e quel che li circonda.

Nella storia dei sapiens la costruzione di mezzi tecnologici (percussori più efficienti, lame affilate o coltivazioni estese) ha coinciso spesso con l’impoverimento di terre limitrofe e la distruzione di specie vicine. La misteriosa isola di Pasqua è oggi brulla perché vittima di un popolo ingegnoso ma sconsiderato che cinquecento anni or sono ha edificato enormi statue di pietra grazie a un disboscamento talmente radicale da causare estinzioni di massa in una rocca divenuta deserta.

È ancor più significativo che su questa strada distruttiva si inscrivano figure umane apparentemente innocue come i primi coloni delle Americhe. Circa diecimila anni fa, una volta superato lo stretto di Bering finalmente libero dal ghiaccio, gli umani provenienti dall’Asia si sono messi al lavoro con particolare zelo. Nel giro di poco tempo (forse solo qualche decennio!) sterminarono la maggior parte dei grandi mammiferi del continente che ancora non avevano imparato a conoscere la nostra specie: mammut e bradipi, cammelli e cavalli, felini dai denti a sciabola e castori grandi come orsi. Per ironia della storia, migliaia di anni dopo sarà proprio quello sterminio a contribuire alla sconfitta di Aztechi e Inca contro i conquistadores. In particolare la mancanza di cavalli, ricorda Diamond, costituì uno dei punti deboli militari più clamorosi per popolazioni che finirono per pagare a caro prezzo la devastazione ambientale compiuta tempo addietro.

Un rapporto problematico

Ecco dunque un dato antropologico centrale: il rapporto tra sapiens e gli ambienti (animali o vegetali) con i quali essi vengono in contatto è sempre problematico, spesso distruttivo. È a tal proposito che il libro fornisce le istantanee antropologiche migliori. Quando lascia da parte le amenità dell’evoluzionismo «tradizionale e a tutti i costi» desideroso di modellare nel dettaglio ogni nostro comportamento, la storia umana costruita da Diamond è in grado di spiazzare il lettore innanzitutto per la scelta del punto di vista geografico. Le vicende meno recenti delle Americhe sono regolarmente accostate agli avvenimenti di zone del mondo apparentemente periferiche come la Nuova Guinea o la Tasmania. Invece sono proprio queste regioni, nelle quali Diamond ha potuto compiere esperienze di ricerca sia zoologiche che antropologiche, a mostrare l’ampiezza delle varietà di lingue e culture umane. Allo stesso tempo sono proprio queste le regioni nelle quali l’estinzione delle specie viventi più diverse si è accompagnata in modo più evidente a efferati genocidi umani.

La scomparsa degli abitanti della Tasmania, la distruzione sistematica degli aborigeni australiani o delle prime popolazioni che abitarono le Americhe aggiungono una didascalia non secondaria alle vecchie foto della nostra storia evolutiva. L’ambiente verso il quale i sapiens hanno da sempre mostrato un impatto aggressivo senza pari non è formato solo da canguri e uccelli privi di ali ma anche da quei membri della nostra specie ritenuti non umani poiché appartengono ad altri gruppi, parlano lingue diverse, svolgono differenti attività produttive e rituali.