Nell’ultimo dibattito presidenziale, martedì scorso, i candidati repubblicani si sono unanimamente dichiarati paladini della middle class, pronti a sostenere la classe media sempre più in declino. Sette anni dopo il collasso finanziario provocato dalla speculazione fraudolenta di banche e Wall street, l’America sotto Obama registra una «ripresa» che a fronte di una disoccupazione scesa dal 12% a quasi il 5% vede la crescita inchiodata sul 2% e soprattuto inesorabilmente «deviata» verso l’alto. Il potere d’acquisto della classe media così decantata dai politici è in caduta libera il benessere è sempre più concentrato nei ceti più abbienti. Persino Jeb Bush ha dovuto ammettere che «ci suono nuovi impieghi, ma pagano meno di quelli vecchi». Bush parlava per interesse politico tentando di addossare ad Obama il retaggio dell’amministrazione del fratello maggiore. Detto questo è innegabile che a sette anni dal crack innescato dai finanzieri (e per il quale nessun banchiere ha mai scontato una pena), la «ripresa» americana ha consolidato la ricchezza delle oligarchie, sfoltito la forza lavoro, abbassato i salari e aumentato le ore di lavoro o, come si dice, «ottimizzato la produttività».
Un’analisi recente dell’Economic Policy Institute ha rilevato che i salari medi dei lavoratori americani sono aumentati appena del 5% dal 1979 ad oggi ma nello stesso periodo la produttività è aumentata del 75%. E mentre la produttività economica complessiva è aumentata del 64%, due terzi della forza lavoro non ha visto alcun aumento reale dei compensi…
Checché ne dica Bush, la situazione che vede tuttora ben il 14% della popolazione sotto la soglia della povertà (24000 dollari l’anno per una famiglia di quattro persone) è dovuta in gran parte al sabotaggio di ogni iniziativa progressista da parte della maggioranza repubblicana in parlamento. Fra queste la proposta di Obama di alzare il minimo salariale federale dagli attuali 7,25 a 10,10 dollari l’ora. L’iniziativa era stata annunciata a febbraio, nell’ultimo discorso state of the union ma è stata ripetutatmente bocciata dalla maggioranza parlamentare repubblicana.
Di fronte al perentorio veto dell’opposizione Obama si è appellato alle amministrazioni locali, esortando comuni e province ad aumentare autonomamente i salari minimi (complessivamente le giurisdizioni locali interessano un numero molto maggiore di lavoratori). Il movimento per i minimi salariali è una risposta organica alle politiche che sin da prima della crisi hanno favorito le grandi istituzioni, banche e finanza rispetto ai lavoratori. Una risposta politica all’iniquità che è la cifra globale dell’attuale fase capitalista cui hanno aderito sindacati ed associazioni di base e i minimi salariali promettono di essere un tema simbolo della prossima stagione elettorale. E il fronte si è effettivamente spostato sulle città. Solo nello scorso anno San Fransciso e Seattle hanno approvato aumenti del minimo a 15.00 dollari l’ora. Washington, Oakland e Chicago hanno fatto seguito portando la paga minima fra gli 11,50 e I 13,00 dollari. A Los Angeles una coalizione di sindacati degli alberghieri ha ottenuto un contratto di 15,37 dollari l’ora, l’amministrazione del sindaco Garcetti ha adottato una legge che allargherà l’aumento ad altre categorie nei prossimi cinque anni. Proposte analoghe sono attualmente all’esame a New York e San Diego.
Sul fronte opposto i repubblicani hanno blindato gli stati right-to-work, del cosiddetto «diritto al lavoro». In Wisconsin il governatore Scott Walker, sostenuto dai finanzieri conservatori Koch, ha costruito una piattaforma politica sullo smantellamento dei sindacati degli impiegati pubblici diventando giovane promessa del suo partito e candidato presidenziale (prima di ritirarsi il mese scorso). Nel Texas compattamente repubblicano è stato approvato addirittura un emendamento che vieta preventivamente alle amministrazioni pubbliche di istituire minimi salariali. Ma anche qui organizzazioni locali – persino parrocchiali come a San Antonio dove il pastore della Sacred heart church afferma di ispirarsi alle parole di papa Francesco – si adoperano per aumentare un po’ le buste paga dei lavoratori. Dopo 25 anni di politiche a favore unicamente delle imprese, la Communities organize for public service ha ottenuto un aumento del minimo nella città a maggioranza ispanica fino a 13 dollari l’ora.
Non si tratta di un regalo: tenendo conto dell’inflazione, inoltre, il potere d’acquisto dell’attuale minimo salariale è inferiore del 25% a quelle che era nel 1968. Il minimo federale di 7,25 dollari garantisce in sostanza che un lavoratore e tempo pieno non possa guadagnare più di mille e rotti dollari al mese – ben al di sotto della soglia di povertà. Lo «stipendio da fame» d’altra parte è il business model di aziende come WalMart, il gigante della distribuzione che è il maggiore datore di lavoro del paese e caposaldo di una «economia della povertà» che sfrutta una forza lavoro a cui vende poi gli stessi prodotti low-cost. Un modello emblematico di un economia che ha sostituito gli impieghi «sindacali», in grado di sostenere una classe media, con precariato e part time e lavori «di scarto». Non a caso una delle vertenze emergenti è quella dei lavoratori dei fast food. Mentre la scorsa settimana i candidati repubblicani inveivano contro i minimi salariali, all’esterno del Milwaukee theater, un picchetto rivendicava aumenti per i quasi 4 milioni di persone che lavorano nei fast food, parte dell’ultimo sciopero e manifestazione nazionale indetta da Fight for 15, la coalizione definisce i lavoratori che guadagnano meno di 15 dollari l’ora «un segmento di elettorato ormai impossibile da ignorare».
Ed effettivamente sia Bernie Sanders e Hillary Clinton hanno inserito l’aumento dei minimi nelle proprie piattaforme elettorali. Entrambi i candidati hanno inviato messaggi di solidarietà agli scioperanti e a New York il sindaco De Blasio si è unito al loro corteo. Le 45 milioni di persone ufficialmente «povere» (ma che usando un metro più realista sono in realtà molte di più) formano un economia semisommersa che droga le statistiche sull’occupazione e nasconde il generale declino della qualità della vita e del lavoro. Sui minimi salariali, e il principio di ridistribuzione che rappresentano, si gioca quindi una fondamentale partita politica per cominciare quantomeno a rettificare un insostenibile polarizzazione sociale.
Nel 1964 Lyndon Johnson lanciava la sua war on poverty, uno degli ultimi programmi sociali della Great Society. A 50 anni distanza la situazione è semmai peggiorata. Le prossime elezioni americane saranno anche uno scontro fra i repubblicani che intendono raddoppiare su un liberismo che introietta il peggio della globalizzazione e un possibile progressismo che intende recuperare le basi del new deal.