La questione del controllo delle imprese grandi e medio-grandi del nostro paese non è più quella di una lenta ritirata del capitale nazionale, ma di una rotta sostanzialmente disordinata. Nell’ultimo periodo abbiamo assistito alla pratica cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro e del controllo del Monte dei Paschi, a investitori sudamericani, sempre per una manciata di soldi. Intanto l’Eni annuncia la vendita di quella grande impresa che è la Saipem e, naturalmente, dal momento che non si troveranno investitori nazionali disponibili, l’ambita preda finirà in mani lontane. Anche la annunciata e insensata privatizzazione di Fincantieri – un’impresa che da qualche tempo naviga sulla giusta rotta e che dovrebbe semmai essere aiutata ad espandersi ancora – potrebbe portare qualche sgradevole sorpresa sul fronte della proprietà; con questo governo c’è sempre da aspettarsi il peggio. Ma ora, in attesa di altri annunci della stessa natura, fanno notizia soprattutto le vicende di Indesit, Ilva, Alitalia.

Sulla vicenda della nostra compagnia di bandiera, l’epilogo sembra vicino. Il ministro Lupi chiede di decidere mettendo i sindacati di fronte alla drammatica alternativa di accettare, e in fretta: o i pesanti tagli all’occupazione o la chiusura definitiva della compagnia.

Non esistono in effetti altre soluzioni, di fronte tra l’altro ad un interlocutore, quello arabo, che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, ha avanzato richieste molto pesanti anche alle banche, indurendo le sue richieste nei loro confronti diverse volte negli ultimi mesi. Con una conclusione in qualche modo positiva della vicenda si chiuderebbe peraltro uno scandalo, che dura da sessanta anni, di spreco di risorse pubbliche, di immistione senza freni della politica più deteriore nelle vicende della compagnia, di gravi incompetenze di gestione.

Per quanto riguarda l’Indesit, si è chiusa una falsa asta tra produttori americani, tedeschi e cinesi per la conquista della compagnia. In realtà, si sapeva da tempo che avrebbe vinto la statunitense Whirlpool, anche se, ad esempio, l’offerta cinese era economicamente migliore e quella tedesca politicamente più opportuna. Si sussurra, in effetti, che l’attuale amministratore delegato della società marchigiana fosse da tempo in relazioni di amicizia con il responsabile europeo della stessa Whirlpool e che i due, di fronte anche ad azionisti disorientati e passivi, si fossero messi d’accordo sulla transazione già da molto tempo. Bisognerà stare almeno attenti, ora, perché la nuova proprietà rispetti le decisioni di quella vecchia in merito ai recenti impegni assunti in termini di investimenti ed occupazione, anche se, di nuovo, con l’attuale governo non c’è da sperare molto in questo senso.

Ma indubbiamente la partita più rilevante per il paese si gioca in questo momento sull’Ilva. Le notizie di queste ore parlano di una garanzia da parte del governo verso il sistema bancario perché continui almeno per il momento ad alimentare le casse della società ormai al limite dell’asfissia; di una pratica defenestrazione di Ronchi, sub-commissario per le questioni ambientali, in pratica costretto a dare le dimissioni; del mancato e parallelo rifiuto, almeno per il momento, dello stesso governo ad utilizzare gli 1,8 miliardi di euro, a suo tempo sequestrati dalla magistratura, per il risanamento ambientale e per i nuovi investimenti necessari alla ripresa dell’azienda.Intanto proseguono le trattative, sembra esclusive, con Arcelor Mittal per una cessione della compagnia.

Le notizie che arrivano non sono dunque confortanti. Il governo, con una rappresentante della Confindustria come la Guidi nella sua compagine, cerca di dare il minor fastidio possibile ai capitalisti nostrani, trattando con i guanti gialli la stessa famiglia Riva; e intanto, apparentemente, si disinteressa del risanamento ambientale, mentre a Taranto si continua a morire e ad ammalarsi e mentre il calo recente delle emissioni nocive sembra dovuto in buona misura alla chiusura, più o meno momentanea, di una parte degli impianti. D’altro canto, si è scelto per l’intervento nel capitale l’interlocutore sbagliato, quella indiana Arcelor Mittal che è già fortemente presente in Europa, dove ha una capacità produttiva largamente in eccesso. Un suo intervento nel capitale dell’Ilva, motivato quindi semplicemente con il tentativo di impedire l’ingresso nella compagine azionaria dei concorrenti cinesi o coreani, significherebbe probabilmente un taglio abbastanza drastico degli impianti e conseguentemente dell’occupazione.La vicenda continua a svolgersi peraltro con il possibile ed ulteriore intervento della magistratura.

Auspichiamo da tempo che, a difesa degli interessi dei lavoratori e dello stesso sviluppo dell’economia nazionale, che nella nuova compagine azionaria entri, in posizione di rilievo, una qualche entità pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti o lo stesso Tesoro. Ma c’è da sperare qualcosa in tale direzione visto l’orientamento fanaticamente liberista dell’attuale governo e avendo la sensazione che ai posti di comando siano presenti molti dilettanti allo sbaraglio?