Il libro di Maria Bettetini, Distruggere il passato. L’iconoclastia dall’Islam all’Isis (Raffaello Cortina, pp. 132, euro 12) è un’utile ricognizione sui rapporti che i tre monoteismi hanno stabilito con le immagini. A differenza dell’ideologia interessata con la quale spesso la cronaca odierna affronta questo argomento in seguito a attentati a persone e a devastazioni di siti museali archeologici o religiosi, il libro di Bettetini dà la possibilità di avere un’idea più accurata del contesto storico, teologico nel quale iconofilia e iconofobia si sono scontrate tra giudaismo, cristianesimo e islam. Così, ad esempio, Bettetini mette molto bene in relazione fra loro gli atti teologici e politici del 700, forse il secolo più iconoclasta nella storia dei tre monoteismi.

Quando, tra l’editto di Yazid II nel 721 o 723 (secondo una tradizione malevola suggerito dall’ebreo Sarantapechys), il concilio di Hieria convocato dall’imperatore bizantino Costantino V nel 754 e quello di Nicea del 787 l’opposizione alle immagini sembra farsi norma. E ciò oltre all’ebraismo, anche nel mondo islamico e in quello cristiano bizantino. Il cristianesimo occidentale invece rimane più favorevole alle immagini, ma non senza significative eccezioni. Come si vede, ad esempio dalla sobrietà iconografica e decorativa dei monaci cistercensi e più tardi del protestantesimo. Variazioni consistenti riguardo l’iconofobia, come non manca di informare Bettetini, caratterizzano anche il giudaismo e l’islam. Per cui, fare di una sola di queste religioni la distruttrice designata delle immagini, per ragioni intrinsecamente legate al suo credo e ai suoi testi sacri, è storicamente e culturalmente sbagliato. Ribadire ciò è molto significativo in un momento, come quello attuale, nel quale la caccia al nemico della civiltà sembra ridiventare redditizia in termini di consenso politico.

10clt2Nineveh_Nebi_Yunus_Excavation_Bull-Man_Head-e1426011049978-592x333
[object Object]

Al di là del suo contenuto, forse anche per ragioni di marketing editoriale che probabilmente sfuggono al controllo dell’autrice, il libro sembra però volerci dare un’immagine delle cose differente rispetto al testo, se si considera il titolo, la seconda parte del sottotitolo e le parole nel retro di copertina.
L’iconoclastia non coincide sempre con la distruzione. Tanto meno con la distruzione del passato come titola il libro. Anche chi non è iconoclasta può distruggere le immagini altrui semplicemente rimpiazzando queste ultime con le proprie. La distruzione inoltre può non riguardare soltanto le immagini. Così la devastazione e il saccheggio delle rovine di Palmira operati dall’Isis, ad esempio, non sono assimilabili in toto all’iconoclastia. E non soltanto perché le architetture non sono solo immagini, ma soprattutto perché quelle distruzioni sono state fatte per essere fotografate, filmate e cioè proprio per produrre immagini da diffondere.

Analogamente alle reliquie che venivano ottenute dai corpi dei santi, a volte fatti appositamente a pezzi a tale scopo, gli odierni smembramenti di rovine in parti più o meno commerciabili sono distruzioni che mirano paradossalmente a costruire una presenza moltiplicata, a riprodurre l’unicità del corpo del santo o l’unicità della rovina, della statua mutilata. Questa distruzione costruttiva, nel caso dei cimeli archeologici, può avere a che fare molto con l’immagine. E ciò per enfatizzare simbolicamente tale operazione di macelleria mercantile, culturale o religiosa. Inoltre, quante devastazioni sono occorse perché si pretendeva di rinvenire o ricostruire meglio il passato, il suo strato più originario, più importante di altri strati che, essendo d’ostacolo, sono stati distrutti? Gli esempi sono tanti e caratterizzano civiltà e religioni di tutto il mondo, come documenta anche un recente libro di Matthiae.

La distruzione della memoria non è appannaggio esclusivo del «nuovo» tipo di Islam incarnato dall’Isis, come invece il retro della copertina del libro sembra suggerire. Anche per assecondare l’invito fatto da Bettetini a una contestualizzazione storica più profonda occorrerebbe prendere le distanze dalla tentazione del sensazionalismo spiccio di chi è definito «disumanamente nuovo». La contrapposizione fra umani custodi e disumani distruttori del passato dovrebbe essere considerata, al di là delle diverse tradizioni teologiche, anche nella medesima umanità globalizzata dove «noi» e «loro» finiscono per assomigliarsi e scambiarsi i ruoli.

Una copertina è anzitutto visualità, immagine. È una soglia che ci fa cenno, ci instrada a significati che possono essere anche molto diversi da quello che a prima vista si mostra. I modi in cui oggi le persone comunicano spesso si arrestano proprio sulla soglia, all’immagine. Questa dunque può valere il messaggio del libro – anche quando, come in questo caso, il messaggio del testo non è quello della copertina.