Si è tenuta nei giorni scorsi a Roma la conferenza ministeriale Eu-Horn of Africa Migration Route Initiative, meglio conosciuta come Processo di Khartoum, dal nome della capitale del paese in cui è stata organizzata la prima riunione di questo percorso che ha come obiettivo la «gestione delle rotte migratorie in provenienza del corno d’Africa». La conferenza è stata presieduta dal ministro degli Esteri Gentiloni e dal ministro dell’Interno Alfano e si è svolta sotto la presidenza italiana dell’Ue. Il governo ha spiegato che si vogliono promuovere progetti concreti per una più efficace gestione dei flussi migratori nei paesi del Corno d’Africa e nei maggiori paesi mediterranei di transito (Libia, Egitto e Tunisia). Al processo, oltre ai 28 stati membri Ue, partecipano Libia, Egitto, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Kenya, Tunisia, paesi nei quali in molti casi i diritti umani non sono tutelati o, come in Eritrea e Sudan, sono retti da sanguinose dittature.
L’Italia ha sostenuto che «la gestione dei flussi in provenienza dal Nord Africa non può avvenire unicamente con operazioni umanitarie, come Mare Nostrum, o di controllo delle frontiere, come l’operazione Triton, gestita dall’agenzia europea Frontex». Il Processo di Khartoum deve concentrarsi, secondo il nostro governo, su un tema di grande urgenza: la lotta al traffico di migranti (‘smuggling’) e alla tratta (‘trafficking’). Successivamente potrà coinvolgere anche altri temi, in coerenza con le priorità dell’Ue (migrazione regolare, migrazione irregolare, migrazione e sviluppo e protezione internazionale).
Anche in questo caso viene proposta la politica dei due tempi, laddove la certezza di impiego di risorse e di strumenti riguarda solo la parte di controllo e blocco dei flussi, mentre sulla parte di accesso regolare permane una totale incertezza su tempi e modi. Il primo passo sembra essere quello di coinvolgere, attraverso progetti di cooperazione da finanziare con fondi Ue, l’Organizzazione internazionale per la Migrazione (Oim) e l’Unhcr con l’obiettivo di creare e gestire campi per migranti nei paesi di partenza e di transito. Accanto a questo, che non è una novità (il campo di Chucha nel sud della Tunisia è stato aperto a lungo proprio con gli stessi obiettivi, e non è l’unico), si pensa a una campagna di informazione, già promossa in passato con evidente insuccesso, per dissuadere le persone a partire, informandole dei rischi che corrono. E poi progetti per finanziare la formazione delle guardie di frontiera.
In concreto l’obiettivo dell’Ue, con in prima fila il governo italiano, è provare a trasferire nel nord Africa, se non direttamente nei paesi di partenza, le nostre frontiere, bloccando alla partenza sia i migranti «economici» che i richiedenti asilo, cioè coloro che fuggono da guerre e persecuzioni. Per raggiungere questo obiettivo (che farà contenti il nostro Salvini, la signora Le Pen e tutti i razzisti fuori e dentro le istituzioni), l’Ue è pronta a discutere anche con il dittatore eritreo Isaias Afewerki, che dal 1993 governa il paese dal quale arriva uno dei gruppi più numerosi di persone in cerca di protezione, proprio a causa della mancanza di qualsiasi parvenza di democrazia e di rispetto dei diritti umani. È utile ricordare fra l’altro che c’è una commissione d’inchiesta Onu sui crimini commessi in Eritrea. Ma non molto migliori di quelle dell’Eritrea sono le condizioni della democrazia in Somalia e Sudan, da cui c’è un esodo costante di migliaia di profughi.
L’idea di esternalizzare le frontiere è già stata promossa in passato da altri governi democratici. Il primo a farlo ufficialmente fu Tony Blair, ed è un’operazione che rischia di ottenere grande consenso perché, mistificando l’obiettivo con la lotta al traffico di esseri umani, in realtà rilancia le ragioni del razzismo istituzionale, oltre a rappresentare un grande business per le aziende che producono armi e sistemi di controllo. Ricordiamo che solo un anno fa l’allora governo Letta siglò un accordo col già traballante governo libico per l’installazione di un moderno sistema di monitoraggio radar della frontiera sud di quel paese per una spesa di 300 milioni di euro andati a Finmeccanica.
Questo Processo punta quindi a fermare, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica e usando strumentalmente anche argomenti apparentemente a favore dei profughi («se non partono non rischiano la vita»), quel flusso di uomini, donne e bambini che ottengono sempre una forma di protezione dallo stato italiano considerati i paesi da cui provengono. Nel 2013 l’Eritrea è stato il decimo paese di provenienza dei rifugiati di competenza Unhcr a livello globale e nella prima metà del 2014, l’Eritrea, insieme a Iraq e Afghanistan, è stato il secondo paese di provenienza di tutte le richieste d’asilo presentate. Le percentuali di riconoscimento tra le persone provenienti da Siria, Eritrea, Iraq, Somalia e Afghanistan variano tra il 62 e il 95 per cento.
Fermare i profughi attraverso l’istituzione di campi nei paesi di transito (per esempio in Libia) vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle gravissime, e ampiamente denunciate, violazioni dei diritti umani che lì si compiono. In Libia, peraltro, è in atto una guerra civile e la gestione dei migranti è controllata dalle milizie armate che usano gli stranieri, detenendoli, come fonte di introito economico, oltre alla pratica diffusa dei rapimenti alle frontiere sud, a Kufra e Sebha.
Come Arci, insieme a tanti altri, continuiamo a sostenere che, per evitare altre migliaia di morti e scomparsi in mare, è necessario aprire subito canali di ingresso legali e tra questi, data l’attuale situazione di crisi intorno al Mediterraneo, canali di ingresso umanitari. Il che è evidentemente cosa assai diversa dall’attribuire a paesi inaffidabili o con regimi dittatoriali la responsabilità di accogliere e farsi carico delle domande d’asilo.
L’Ue e l’Italia devono abbandonare le politiche proibizioniste, che rendono possibile l’accesso solo attraverso canali illegali, anche dei richiedenti asilo, promuovendo invece una riforma della legislazione che ne cambi completamente il segno per consentire ai migranti di non doversi più mettere nelle mani dei trafficanti e della criminalità.
Rendere comunitarie le politiche di ingresso, rendendo possibile la circolazione delle persone che arrivano in Europa per ricerca di lavoro o per chiedere protezione, vuol dire combattere concretamente coloro che fanno affari o speculano a fini elettorali sul proibizionismo dei governi. Il Processo di Khartoum è una scelta che va nella direzione opposta e che può favorire nei fatti, oltre agli affari delle aziende della guerra, oltre al razzismo politico e istituzionale, anche il business dei viaggi della speranza, che spesso si trasformano in viaggi della morte.
* Vicepresidente nazionale Arci