Un fotografo che portava nel cuore, quasi un secondo obiettivo, un giornale quotidiano. E un giornale appassionato di lui. È la modalità con la quale raccontare lo straordinario rapporto sentimentale, professionale e politico che è intercorso tra Mario Dondero e il manifesto, fin dalla nascita della rivista e dalla radiazione dal Pci, ormai nel lontano 1969, continuata poi con l’uscita del quotidiano nell’aprile 1971 e durata ininterrottamente fino ai nostri giorni.

Perché se c’era un fotografo che corrispondeva a quello che voleva essere il manifesto questo era proprio Mario Dondero. La nitidezza e la pulizia delle sue immagini, l’essere al posto giusto nel momento giusto, dall’ultima guerra al vertice più alternativo, dall’ufficialità artistico-letteraria all’ultima periferia, comunque essendo sempre di casa nel mondo intero – globalizzato ante-litteram – e coinvolto nella resa fotografica perché interessato all’umanità e ai bisogni dei protagonisti in carne ed ossa piuttosto che ai risultati dello scatto. Così abbiamo sempre visto, sentito e interpretato questo straordinario protagonista della comunicazione. Così è sempre stato per tutti noi prima a Via Tomacelli e anche adesso nella ridotta di Via Bargoni. E la nostra passione è stata sempre corrisposta.

«Che poi io conosco Rossana Rossanda fin dal 1949 quando lei dirigeva a Milano la Casa della Cultura… io ho cominciato nel 1951», la memoria non sbagliava sugli affetti, insisteva Mario, «e poi non posso scordarmi la delusione di Luciana Castellina, di Lucio Magri e di Valentino al momento della radiazione del Pci…». Non si tratta solo di legame con la generazione dei fondatori del giornale. «Io sono stato molto, molto comunista – ricordava – e poi lo sarò ad oltranza, non mi sono spostato di una yota dai miei pensieri giovanili di quando ero partigiano».

Era la redazione del manifesto a tornare davanti ai suoi occhi: «Nove anni fa la notte della liberazione di Giuliana Sgrena… ricordo la festa, perché ancora non sapevamo, poi il dolore, la disperazione per l’incertezza, la vita di Giuliana, l’uccisione di Calipari. In quel momento c’era tutta l’angoscia della nostra epoca».

La nostra redazione è stata per lui «una fucina di nuovo fotogiornalismo». Eppure il manifesto quotidiano era nato spartano, colonne di piombo, sommarione come titolo, nella sola variazione del corpo dei titoli, del testo e dei corsivi.

Poi le cose cambiarono, con l’aumento della foliazione ma soprattutto in relazione alla nuova sequenza degli avvenimenti, interni e internazionali, di questi ultimi quaranta anni.

Così le immagini, spesso con la loro falsa coscienza e presunzione di oggettività, irrompevano prepotentemente insidiando anche il giornalismo eretico «dalla parte del torto», fatto di idee, punti di vista e sole ed eleganti colonne di piombo. Allora cominciarono ad arrivare le foto di Mario Dondero, che già aveva attraversato i quattro angoli del mondo, dall’Algeria a Casamanche, dal laos a Cuba, ma sempre attento anche alle pieghe delle periferie metropolitane d’Europa, con una insistenza particolare, tutta sua, sull’uso necessario del solo bianco e nero per restituire la leggerezza, spesso invisibile, del vero.

Sulle guerre, Mario ha sempre polemizzato con la figura dell’inviato embedded al seguito degli eserciti, con il sedicente professionale «inviato di guerra», rifiutando quella formula strumentale di partecipazione al conflitto e rivendicando invece la capacità di farsi in disparte con la macchina – la sua inseparabile arma, la Leica – pronto a cogliere nell’attimo il massacro di umanità insito in ogni spargimento di sangue.

Venire al manifesto voleva dire per lui partecipare ad un «collettivo che lotta», diceva. «È arrivato Mario», e allora tutti si alzano dalle scrivanie per correre a salutarlo. È sempre stato così. E lui tra le scrivanie e i computer abbracciava donne e uomini, baciava tutti. E ci fotografava, come se fosse in una passeggiata nella luce accogliente della sua Fermo.

«Ho più rollini non sviluppati di vostre foto e tante di Luigi Pintor che voi nemmeno immaginate… io faccio tanti provini che a volte nemmeno sviluppo». Dunque c’era un deposito di foto sul manifesto nel cuore di Mario Dondero, di quel giornale che il giorno dopo diventa solamente «carta per incartare il pesce», suggeriva Luigi Pintor custode del deperimento del tempo.

Le foto di Mario Dondero hanno sempre corrisposto a questa originalità: essere scintille serene, spesso epifaniche, ma insieme transeunti, umili e con la capacità di ridurre il momento alto in un tratto d’ombra chiaroscura che coglie il gesto o il momento nascosto con una assoluta unicità.

Le sue periferie di Parigi sono una scuola dello sguardo contemporaneo sulla nuova esperienza metropolitana dell’occidente europeo. È una stratigrafia dei sentimenti nel tempo storico del secolo breve e nella topografia urbana. Lì Mario ha cercato e spesso trovato la vita che, in segreto, riproduce ogni giorno l’esperienza materiale, sempre con la Leica e la sua camera oscura, quella della passione calma e rigorosa.

Cercando, con una scintilla, la luce umana seduttiva.

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