Non sono sicuro circa la impegnativa – me ne rendo conto – conclusione di un ragionamento che tuttavia sto maturando. Conclusione impegnativa per chi, come me, già vent’anni orsono, con pochi altri – penso a Prodi e Parisi, contrastati dai gruppi dirigenti dei partiti eredi del centro e della sinistra del primo tempo della Repubblica – già sognava (e lavorava a) un partito democratico unitario, inclusivo e plurale nel quadro della stabilizzazione di un bipolarismo maturo. Sbloccando così la democrazia italiana, a lungo imbrigliata dal fattore K e dalla gabbia dell’unità politica dei cattolici. E tuttavia penso ci si debba misurare a viso aperto con fatti e problemi che non si possono essere esorcizzati. Sinteticamente.

Primo: le minoranze interne al Pd non possono reiterare la prassi di distinguersi sistematicamente in parlamento su tutti i provvedimenti che contano. Comportamenti alla lunga indifendibili. È giusto chiedere lealtà in ragione di un vincolo politico, prima che disciplinare, e dunque del dovere di conformarsi alla regola di maggioranza dentro un partito e un gruppo parlamentare degni di questo nome. Specie chi è cresciuto dentro la “ditta” non può non comprenderlo. Talvolta ho come l’impressione che, al fondo di tale contraddizione, stia per paradosso proprio la cultura comunista del partito come casa, chiesa, mamma… Più precisamente la convinzione – forse un riflesso condizionato inconsapevole – che il Pd sia la propria casa, solo al momento occupata dall’usurpatore Renzi, di cui tuttavia prima o poi ci si sbarazzerà. Costi quel che costi. Riappropriandosi della casa… di proprietà. Lo si evince da qualche indizio lessicale del tipo: questa è casa mia e non la lascio; la scissione non sta nel mio vocabolario… Perché mai escludere programmaticamente tale esito? Il partito è uno strumento non un fine. Esso meriterebbe una considerazione più laica, meno chiesastica.

Secondo: dopo la battuta d’arresto del test amministrativo originata dal mancato sfondamento al centro e dal riflusso di elettori di sinistra nell’astensionismo, l’annuncio renziano di un piano di drastica riduzione fiscale denota che, posto di fronte a una secca alternativa, Renzi ha deciso di procedere più risolutamente verso una politica che sarebbe ingeneroso bollare come di destra, ma di sicuro posiziona il Pd su un asse liberale e centrista. Non una bestemmia, ma certo un profilo decisamente diverso da quello di un partito di centrosinistra organico, nitidamente alternativo al centrodestra, nel solco dell’Ulivo. Un Pd inclusivo verso il centro, ma anche verso sinistra. Del resto, il formato del governo – con la rottura a sinistra e l’alleanza con Ncd – da transitorio sembra farsi regola, orizzonte strategico. Si pensi anche alle prospettive che si profilano, per esempio, in Sicilia e a Roma, qualora la situazione dovesse precipitare. Segnali simili si avvertono anche sulla piazza di Milano per il dopo Pisapia. Si pensi anche, al netto di una qualche forzatura propagandistica, alla orgogliosa rivendicazione da parte di Ndc dei risultati di un governo che starebbe realizzando storici obiettivi del centrodestra. Per farla breve, dopo un tempo contrassegnato da un movimentismo corsaro di difficile definizione sull’asse destra-centro-sinistra, ho l’impressione che quello di Renzi sia finalmente un posizionamento strategico definitivo e che si debba prenderne atto sine ira ac studio. Non c’è bisogno di agitare il fantasma del soccorso vero o presunto, autonomo o concordato, di Verdini. Difficile negare che la svolta renziana non ponga il problema dell’adeguata rappresentanza di un certo elettorato di sinistra altrimenti destinato a gonfiare le fila degli astensionisti o a rifluire sui 5 stelle. Del resto, Renzi e più ancora taluni suoi baldanzosi pretoriani non sembrano adoperarsi per includere, semmai il contrario. Lo si può comprendere: per un Pd così riposizionato certe istanze egualitarie di sinistra rappresentano un impiccio.

Terzo: uno dei punti di contrasto interno al Pd in tema di legge elettorale è quello relativo al premio alla lista anziché alla coalizione, come nella versione originaria. Non a caso. Il cambiamento è intervenuto a valle della grande performance del Pd alle europee (e, prima ancora, della rottura a sinistra con Sel). Ora i sondaggi attestano che la sottesa presunzione di una quasi autosufficienza suona velleitaria. Ma sembra improbabile che Renzi rimetta mano all’Italicum. Nonostante il rischio, imprudentemente sottovalutato, di un ballottaggio insidioso tra fronte renziano e fronte del Tcr = tutti contro Renzi.

A meno che non intervenga un fatto politico di rilievo. Come appunto lo sviluppo di una formazione politica di una certa consistenza alla sinistra del Pd. Dichiaratamente di sinistra, con cultura di governo e informata a un riformismo forte. Essa non potrebbe certo camminare sulle gambe di Landini con il suo pansindacalismo o di qualche singolo che ha lasciato il Pd. Dovrebbe sortire da un soggetto collettivo solido e plausibile. A copromuoverla non potrebbe che essere l’attuale minoranza Pd o parte di essa. Penso a una separazione civile, senza anatemi. Come presa d’atto di una differenza politica e programmatica incomponibile dentro un medesimo partito. Persino nel reciproco interesse. Cioè operata in modo da non escludere, anzi dal prospettare future alleanze. Sì, un centro-sinistra con il trattino. Quel trattino che, da ulivista, in passato contrastai. Un’alleanza siglata prima o dopo il voto. In dipendenza appunto del premio assegnato dall’Italicum.

A Veltroni, vorrei dire che non deve convincere me che sinistra sia una bella parola. Solo che resterebbe una mera parola se si pensasse di occultare differenze e conflitti politici con la retorica concordista delle endiadi tipo innovazione-uguaglianza. Bobbio e Foa, che egli evoca, sul punto sono assai meno irenici: innovare ok, ma è l’uguaglianza la cifra della sinistra e delle sue politiche. Ciò che conta è il senso, la direzione del cambiamento.
Dunque ha ragione Renzi, quando osserva che non servono microscissioni. Altra cosa sarebbe se si trattasse di un’operazione politica di rilievo per quantità (diciamo, l’obiettivo di un partito a due cifre) e qualità, nella cultura e nel personale politico. È ciò che da tempo teorizza e propone Cacciari. Non lo faccio volentieri, ma temo di dovergli dare ragione.