In un quartiere popolare di Taranto, frotte di ragazzini hanno speso le ore migliori della giovinezza correndo dietro a un pallone, provando colpi di tacco e piroette, tunnel e rovesciate, sognando di emulare le gesta di Krol e Boninsegna. Tanti di loro hanno calcato il terreno battuto del «Tamburi vecchio», il campo epico con le reti delle porte formate dalle corde per legare le cozze a mare, il sabbioso rettangolo di gioco a un passo dalla fabbrica più inquinata d’Europa, a due dal cimitero dove le polveri colorano di rosso le lapidi dei defunti.

Sono i protagonisti dell’Ilva Football Club, la squadra ideale di due-tre generazioni di adolescenti della zona, il volumetto (edizioni Kurumuny, pp. 80, euro 8.50) scritto da due giornalisti, Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, che hanno riannodato i fili della memoria, personale e collettiva, per ricordare quella stagione di calcio fanciullesco e amatoriale, negli anni settanta. Un periodo fulgido di tornei, derby e rivalità infuocate che avrà un epilogo tragico nella lista infinita di morti e malati di tumore, passati attraverso l’acciaieria Italsider, inaugurata nel 1965 dal presidente Saragat, l’insediamento siderurgico coi suoi minerali velenosi, il grande Moloch cittadino. Restano pochissimi testimoni di quell’epoca, principalmente i voli, incantevoli come dribbling, delle rondini e le liriche dei poeti (come Pasquale Pinto, grande cantore operaio, con la sua Terra di ferro), qualche sopravvissuto e discorsi, fotografie, ricordi autobiografici, tanto da poter compilare un’ipotetica formazione «Lacarbonara in porta, agile come un gatto. Ripiano e Papalia difensori centrali dal tackle spietato. De Tuglio e Andrisani terzini infaticabili. Guarino e Catapano a disegnare geometrie nel centro del campo, quasi avessero un compasso al posto delle gambe. Casile e D’Alò sulle ali, sognando Domenghini. De Gennaro e Capozza attaccanti, quando Riva era solo il cognome del bomber del Cagliari e non anche quello del sovrano assoluto della siderurgia italiana. Allenatore: mister Serio, il sergente di ferro. Anzi d’acciaio».

Tutti morti prima del tempo, corrosi dai vapori esalati dal sottosuolo, dalla cokerie e dai liquami dei turni notturni, pugnalati alle spalle dall’inquinamento che ha travolto chi respirava quell’aria mefitica (quando soffiava la tramontana, una patina di polvere sottile si posava dovunque) e calpestava quel suolo gravido di diossina, birillio, silicio, litantrace. Così questa inevitabile Spoon River delle «cape pacce», le teste calde coi capelli lunghi, non può dimenticare don Franco, il sacerdote che si opponeva alla deriva criminale correndo sulla fascia e organizzando partite in parrocchia, e la coppa Natale di 40 anni fa, con la squadra iscritta a nome Labor (come altro poteva chiamarsi la rappresentativa della parrocchia Gesù Divin Lavoratore, col mosaico del Cristo operaio e l’aspetto di un capannone industriale?) che indossava le magliette di color grigio Italsider, le più a buon mercato disponibili, che replicavano i fumi e i paesaggi dell’industria.

E l’incontro inatteso col proprio Falanto, l’indimenticabile condottiero spartano, nelle vesti di Mimmo Presicci, ritrovato nell’allenamento precampionato del Taranto, il glorioso club rossoblu che proprio in quegli anni, il 1977/78 viveva il sogno della possibile serie A col bomber di Capracotta, Erasmo Iacovone, scomparso per una tragica fatalità mentre il club finirà travolto da debiti e malagestione, fino alla radiazione del 1993.
Forse il pretesto per andare indietro nel tempo è stato il sequestro dell’Ilva da parte della magistratura per disastro ambientale, nel luglio 2012. «La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone» scrisse il gip ricordando che le «emissioni nocive hanno avuto impatti devastanti sull’ambiente e sulla popolazione».

Riecco la contraddizione tra diritto al lavoro e diritto alla sicurezza e alla salute, il fumigante mostro nel segno del progresso e del benessere che ha trasformato il verde territorio lussureggiante, la bellezza naturale diffusa che aveva affascinato i coloni della Magna Grecia, in un deserto pestilenziale dove prospera il disagio sociale e la fuga altrove. Resistono solo i venerati maestri, gli allenatori di un tempo, come Panarelli e Rito, educatori innanzitutto e poi Gino Vinci, qui all’ultima intervista, il comunista del pallone, quello che puntava sul rispetto e sull’affetto, sulla correttezza e sull’adattamento, col tipico esercizio di calciare di destro e di sinistro di fronte a un muro.

Ci sono anche le parole di quelli che non riescono a dimenticare, come la lettera del sindacalista pentito «per non aver saputo fermare lo scempio», con tutto il peso degli operai uccisi dagli incidenti, intossicati, ammalati. E altre generazioni di bambini che corrono dietro ai loro sogni rotondi come una sfera di cuoio, sfidando l’attuale divieto comunale di giocare all’aria aperta per colpa dell’inquinamento. E quelli, un po’ più grandi, si danno da fare organizzando in città la festa dell’uno maggio, con musicisti, ong e attivisti sociali, collettivi operai e mamme coraggio, e aspettano in mezzo all’area di rigore in attesa di un cross che non sanno se e quando arriverà.