La Legge di Stabilità votata dal Senato della Repubblica, assieme al jobs act, è classista: nei presupposti e nei contenuti, nel mentre alimenta una spiacevole sensazione di già visto. Riprendendo l’introduzione di Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi in «Combattere la povertà, lavoro non assistenza», di Hyman Philps Minsky (ed. Ediesse), Claudio Napoleoni «sosteneva che l’intervento di risanamento del bilancio pubblico ha senso, da sinistra, solo dentro un’operazione più complessiva, che non solo agisca sulla distribuzione del reddito a favore del lavoro, ma intervenga anche sulle determinanti strutturali dell’economia e della società». Dalla stessa opera si può leggere un passaggio interessante di Minsky per comprendere la Legge di Stabilità 2015: «La condizione dei poveri finiva con l’essere migliorata peggiorando quella dei poveri solo un pò meno poveri». A me ricorda molto il Jobs Act e le politiche fiscali sottese della politica economica di Renzi.

Le misure della Legge di Stabilità richiamano un’altra grande pubblicazione: «Le classi sociali negli anni ‘80» di Sylos Labini. Dopo 7 anni di depressione (2008-2014) e la prospettiva di un ulteriore calo del Pil nei prossimi 3 anni, all’orizzonte non si vede nessuna politica economica.
Almeno prossima a quella suggerita da Napoleoni. Dovremo ri-studiare le classi sociali. Se negli anni ’80 si è imposto il modello Reagan-Thacher, in cui il conflitto capitale-Stato è stato risolto a favore del capitale (Paolo Leon), con tutte le ripercussioni sul lavoro, le politiche economiche adottate dai governi nel recente passato, in particolare europei, hanno cambiato i comportamenti di imprese e cittadini, nel mentre cambiava il lavoro (tipico). In Italia il lavoro standard sarà a indennizzo crescente, l’apprendistato e il contratto a termine (per mansione). C’è materia di studio.

Le misure di contenimento della spesa pubblica (17 mld) modificheranno i comportamenti delle persone. I tagli alle regioni sono intatti e incideranno pesantemente su sanità e traporto pubblico locale, mentre la riduzione delle tasse, che non deve essere scambiata con la distribuzione del carico fiscale, assomiglia molto all’impoverimento delle persone meno povere.
Alla fine il governo taglia la spesa pubblica, che è domanda certa, per alimentare la fiducia di imprese e cittadini, senza rendersi conto che sono cambiati sia i cittadini e sia le imprese. Sette anni di crisi ripropongono la tesi di Minsky: lavoro non assistenza.

Per quanto possa sembrare strano, il quadro delle riforme delineato dal governo conferma l’inutilità della Legge di Stabilità.

Se non cambia la struttura e se non si passa dall’assistenza al lavoro, tutte le riforme hanno un impatto negativo sulla crescita, sulla condizione delle persone e financo delle imprese. Diversamente è inspiegabile la crescita dello 0,2% del Pil legata alla riforma del mercato del lavoro e alla riduzione delle tasse per le imprese. I conti tornano, ma l’ideologia fa miracoli.
Ci sono delle misure che sono proprio indigeribili, ma danno il segno (classista) della manovra economica. Con Pini ed altri ricercatori abbiamo discusso dell’impianto della Legge di Stabilità, ma il conto salato delle politiche d’austerità lo pagano in primis i lavoratori pubblici.
Da quando non è stato rinnovato il contratto nazionale, assieme al blocco del tour over, il lavoro pubblico ha concorso al risanamento dei conti pubblici per quasi 17 mld di euro. Sostenere che la riforma della Pubblica Amministrazione favorirà una crescita del Pil dell’1% (nel 2020) ci vuole un bel coraggio.

Per non parlare della presa per i fondelli dell’anticipazione in busta paga del TFR: per i lavoratori privati che ne faranno richiesta, la tassazione sarà quella ordinaria senza, quindi, la più favorevole tassazione separata prevista sulle liquidazioni erogate a fine carriera.
Cosa dire del taglio di 2 mld a valere sull’Irap per i lavoratori neo-assunti a tempo indeterminato a indennizzo crescente? Una misura apparentemente utile; in realtà consolida la precarizzazione del lavoro, come ha denunciato la UIL: i soldi pubblici pagheranno l’indennizzo del contratto a «tutele crescenti».

Quando la manovra economica era stata presentata, in particolare l’aggiornamento di ottobre del DEF, lo slittamento del pareggio di bilancio al 2017 aveva dischiuso alcune illusioni.
Undici miliardi di spesa aggiuntiva in deficit potevano offrire un contributo alla crescita del Paese. Sono stati utilizzati per ridurre le tasse alle imprese senza che intervenisse nessuna clausola, diventando lo strumento per comprimere il perimetro della spesa pubblica.
Se poi i tagli di spesa non saranno conseguiti scatterà la clausola di salvaguardia, cioè un aumento di tasse (IVA e accise), senza dimenticare il blocco temporaneo di Tasi e IMU.
Dunque una manovra che appare classista e senza alcun un progetto, e che cade nel mentre l’Italia aveva la presidenza di turno del Consiglio europeo. Davvero, peggio di così era difficile fare ma, visti i precedenti, ormai non poniamo limiti alla provvidenza.