Sri Lanka: dei soldati bruciano i cadaveri dei loro compagni per poi indossare abiti civili cercando di mischiarsi nella folla. Contemporaneamente una donna cerca una bambina che sia rimasta senza genitori per poterla far passare come sua figlia e, insieme a uno degli ex-soldati, formare una finta famiglia per lasciare il Paese e ottenere asilo politico in Francia. I tre infatti fuggono dallo Sri Lanka dopo la sconfitta definitiva delle Tigri Tamil, e a causa delle persecuzioni di cui sono vittime in quanto appunto minoranza etnica. Da quel momento in poi l’uomo si chiamerà Dheepan, il nome che da il titolo al film vincitore della Palma d’oro a Cannes 2015, e dal 22 ottobre nelle sale italiane, motivo per cui il regista Jacques Audiard è a Roma per presentarlo.
Alloggiati in una banlieue – dove la bambina inizia ad andare a scuola, la «moglie» lavora come domestica di un anziano invalido e Dheepan fa il guardiano del palazzo dove vivono – i tre scoprono presto di non essersi lasciati la violenza alle spalle. Coinvolto nelle lotte tra bande dei sobborghi, il gentile protagonista si troverà costretto a far riemergere la sua natura di soldato.                                                                                                                                                                                                         

Jacques-Audiard

«Dheepan» è anche una presa di posizione rispetto alla questione dei migranti?
Credo che il progetto stesso del film sia molto chiaro in merito: prendere uno sconosciuto, dargli un nome e una storia e attraverso la forma del cinema raccontarlo. Questa è già una presa di posizione sulla questione dei migranti, che per definizione sono anonimi. Ma non è un film sull’immigrazione quanto sull’integrazione sociale. Quest’uomo, che si mette in testa un cerchietto fosforescente per vendere le rose, prima o poi dovrà liberare la violenza che ha subito e rimosso, in termini freudiani. E questa che forma prenderà nel momento in cui tornerà in superficie? È estremamente razzista da parte nostra non pensare minimamente a cosa persone come Dheepan hanno vissuto.

I protagonisti dei suoi film sembrano sempre pensare che la soluzione sia la violenza.
Ho bisogno di episodi di questo tipo, di una certa stilizzazione per far si che i miei personaggi diventino figure cinematografiche. Prima si muovono nell’ambito della verosimiglianza, poi nel momento in cui si scatena la violenza entrano nello specifico del genere. C’è un passaggio del film in cui interrogo direttamente lo spettatore: quando Dheepan traccia una linea per terra, ed è come se chiedessi a chi guarda se è disposto a seguirmi oltre questo confine e oltre la verosimiglianza. È un riferimento preciso a A History of Violence di Cronenberg, alla scena del padre con il figlio sul prato, che traccia il confine tra l’attinenza alla realtà e il suo venire meno.

La perdita dell’udito in «Il profeta» potrebbe forse significare la stessa cosa?
Solo oggi me ne rendo conto, ma quando ho deciso di girare quella scena non ne avevo proprio coscienza. Qualcuno mi ha anche citato Taxi Driver rispetto alla sequenza in cui Dheepan sale le scale. È assolutamente vero, perché ci sono delle forme cinematografiche che ci restano impresse senza che ne siamo consapevoli.
Antonythasan Jesuthasan, l’attore che interpreta Dheepan, è stato un soldato bambino tra le Tigri Tamil. La sua esperienza ha influenzato il film?
Quando si prende un attore non professionista è facile che tenda a pensare di essere stato scelto per quello che è nella realtà. Ma è falso, infatti il lavoro più grande che ho dovuto fare con lui è stato fargli capire che lui non era il personaggio, e fargli intraprendere un percorso verso di esso.

I protagonisti costruiscono una finta famiglia per poter scappare, e alla fine trovano la salvezza in Inghilterra.
La vera salvezza è l’amore. È per amore che alla fine l’uomo che ha sempre imposto i suoi desideri asseconda ciò che vuole fare la donna di cui si è innamorato. L’epilogo è stato molto dibattuto, alcuni lo hanno visto come l’esibizione del Regno Unito come un luogo di accoglienza che in realtà non è assolutamente. La verità è che non si tratta veramente di Inghilterra: è un Paese di finzione, al punto che quella sequenza è stata girata in India, perché volevo che fosse un sole indiano a scaldarli.