Cosa c’è ancora da scrivere sulla vita di Walter Benjamin? Ben poco. È stato un teorico eterodosso che ha rigorosamente ignorato gli steccati disciplinari, una «colpa» che l’accademia non gli ha mai perdonato quando era in vita, voltandogli le spalle quando presentò la richiesta di accedere alla docenza, condannandolo così a vivere per il resto della sua vita nel regno della necessità, nonostante le origini borghesi della sua famiglia.

Benjamin non è stato tuttavia un «marginale» riscoperto solo dopo la sua morte. È stato molto altro ancora. Sicuramente è da considerare uno degli intellettuali più importanti del lungo Novecento. Ogni volta, infatti, che si legge un suo saggio è come aprire uno scrigno che riserva sempre delle sorprese, nonostante il fatto che gli scritti pubblicati dopo la sua morte sono di fatto frammenti di manoscritti che per completarli non gli sarebbero bastato il doppio degli anni della sua esistenza, interrotta unilateralmente in terra spagnola per paura che la polizia iberica lo rispedisse indietro in quella Francia che lo aveva prima accolto e poi costretto a fuggire con l’entrata dei nazisti in quella capitale del XX secolo che aveva amato, studiato e descritto in una montagna di appunti che ancora adesso suscitano stupore e meraviglia per la loro lucidità analitica. Il suo suicidio fu uno shock per i suoi pochi amici. Hannah Arendt, alla quale si deve una delle orazioni funebri più appassionate, ne fu addolorata e chiese rispetto per quella scelta radicale. Bertolt Brecht gli dedicò una poesia che trasuda sentimenti di fratellanza, così rari nella sua produzione poetica. Scholem, che lo sollecitò più volte ad abbandonare la vecchia Europa per trovare rifugio in Palestina, la terra dei suoi avi ebrei, cercò sin da subito di salvaguardare la sua memoria e la sua eredità intellettuale. Adorno e Horkheimer rimasero, dicono le cronache, attoniti alla notizia della sua morte.

Una platea nota

Sono questi alcuni dei nomi che ricorrono nel libro I Benjamin, da poco pubblicato da Sellerio (pp. 333, euro 18) e scritto dallo studioso tedesco Uwe-Karsten Heye, a suo tempo ghostwriter di Willy Brandt e poi portavoce del governo socialdemocratico di Gerhard Schroeder. Un saggio romanzato che ha più chiavi di lettura. Non si propone di fornire una lettura critica di Benjamin, bensì di raccontare attraverso le vicende dei suoi fratelli e della cognata la storia tormentata del Novecento tedesco e del trauma della divisione in due della Germania dopo la sconfitta del nazismo. E non è un caso che a Walter Benjamin viene dedicata solo una parte esigua del libro. La maggior parte delle pagine sono infatti dedicate al fratello Georg, medico comunista morto in campo di concentramento; alla sorella Dora, apprezzata pedagogo, comunista anche lei, morta per un cancro mentre era in esilio in Svizzera. Nonostante le privazioni, il dolore e il relativo isolamento dalla sempre più numerosa diaspora tedesca, Dora Benjamin ha scritto dei testi sulla condizione dei bambini poveri che rimangono ancora adesso un esempio di rigorosa e militante attività intellettuale. E poi c’è Hilde, la moglie del fratello Georg, che tenne duro, salvando se stessa e il figlio Michael senza mai rinnegare l’adesione al partito comunista.

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A guerra finita, i sovietici la chiamarono, in quanto giurista e apprezzata avvocato, a rimettere in piedi il sistema penale. Aderì alla Rdt e fu inflessibile verso i tedeschi nazisti portati a processo. Un rigore che fu stigmatizzato nella nascente repubblica federale tedesca. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli insulti sui democratici media federali oscillavano dal triviale al feroce. Riletti adesso, annota l’autore del libro, i suoi interventi sul sistema giuridico sono un esempio di ponderazione, senza che venga mai meno la denuncia del carattere classista della magistratura tedesca prima, durante e dopo il nazismo. Una caratteristica che a Ovest dell’Elba doveva essere rimossa, contrastata, facendo riferimento al carattere autoritario del sistema politico tedesco orientale, cancellando così il fatto che nella Repubblica federale tedesca gran parte del personale statale nazista rimase in carica. Ed è sempre l’autore del libro, che d’altronde non nasconde le sue critiche alla Rdt, a riconoscere che l’analisi di Hilde sul carattere classista dell’amministrazione penale e carceraria era ed è da condividere ancora oggi.

I terribili anni Trenta

Gli anni Trenta del Novecento sono gli anni della prigione e dell’esilio per la famiglia Benjamin. Georg fu arrestato a mandato nel lager una prima volta. Usci per pochi mesi, prima di venire stritolato negli ingranaggi della macchina di sterminio nazista.

Hilde spese tutta la sua influenza per salvaguardare la memoria di quelle vite spezzate, anche quando divenne ministro della Giustizia nella Rdt, dove Walter Benjamin non godeva certo di buona stampa presso i dirigenti del partito comunista al potere.

È però la parte centrale del libro che riserva una sorpresa. Sono pagine dedicate alla denazificazione mancata nella Rft. Emerge il colpevole silenzio di Adenauer sulla presenza di molti nazisti non pentiti – magistrati, funzionari, ufficiali di polizia e dell’esercito -; e quello altrettanto numeroso dei giornalisti e editori che lanciavano campagna per dimenticare il passato, mentre si stampavano e recensivano positivamente memorie di nazisti in pensione. La Guerra fredda legittimava, si domanda l’autore, tutto ciò? La risposta arriva dalla Rdt. Fare i conti con il nazismo era possibile, allontanando da posti di responsabilità gli iscritti al partito di Hitler. La mancata denazificazione della Rft ha significato l’esistenza, per tutto il secondo dopoguerra, di una democrazia «zoppa». Questo non significa omettere il fatto che nella Rdt la vita non era rose e fiori.

La Germania che emerge da questo libro è lontana anni luce dall’immagine patinata della cronaca corrente. Un paese ancora in bilico tra adesione al regime della «democrazia sociale» e voglia di revanche patriottica. L’unico inciampo alla continuità statale con il nazismo, al quale però l’autore dedica purtroppo solo poche pagina infarcite della malinconia delle occasioni mancate, è il Sessantotto tedesco, dove il passato è tornato al centro della scena pubblica come leva per una critica radicale sia della Rft che della Rdt. È con Sessantotto infatti che il passato può essere affrontato. È con la riunificazione delle due Germanie che per l’autore si chiude il lungo Novecento tedesco. Uwe-Karsten Heye chiede quindi di prendere congedo da quella tragica storia. Prospettiva tuttavia viziata dal fatto che accanto al necessario superamento del passato, nelle ultime pagine si afferma la necessità di prendere altrettanto congedo anche da quella società di liberi e eguali che I Benjamin avevano intravisto sui volti di donne e uomini costretti a vendere le loro braccia e menti per vivere. E che per questo fecero una scelta di vita.