Mentre si avvicina il momento di un bilancio dell’avventura presidenziale di Bernie Sanders arriva opportuna in libreria la versione italiana di Un Outsider alla Casa Bianca (Jaca Book, pp. 368, euro 18), libro nel quale Sanders, con l’aiuto del letterato Huck Gutman, ha riassunto la propria stupefacente parabola politica. Assieme alla raccolta di discorsi Quando è troppo è troppo. Contro Wall Street per cambiare l’America (a cura di Rosa Fioravante, Castelvecchi, 2016, pp. 187, euro 12,75), Un Outsider, con i contributi di Marco D’Eramo e Carlo Formenti, ci aiuta a collocare il rivale di Hillary Clinton nella tradizione politica statunitense. Socialista? Socialdemocratico? Populista? Diciamo che è una figura composita, anche se la sua piattaforma tradisce, come ha notato Charles Postel, uno dei massimi studiosi del populismo storico nordamericano di fine Ottocento, una sostanziale consonanza proprio con quell’esperienza.

Ma su questo torneremo. Intanto mettiamo un po’ d’ordine nella cronologia di Un outsider perché invero, col suo andirivieni narrativo nel tempo, dalla campagna elettorale del 1996 per la rielezione alla Camera, al lungo periodo precedente che negli anni ottanta vede Sanders occupare la poltrona di sindaco di Burlington, nel Vermont, non manca di far venire un certo mal di testa.

Partiamo dunque dall’inizio, cioè da Brooklyn, dove Sanders nasce, nel 1941, da una famiglia, parole sue, di piccolissima borghesia di ebrei immigrati dalla Polonia: il padre un venditore di vernici, l’infanzia accompagnata da un perenne senso di incertezza e precarietà economica che radica nel nostro, oltre a una speciale sensibilità per la diseguaglianza, una forte, persistente attenzione a quello che si ha in tasca, a non fare mai il passo più lungo della gamba. Il che non significa che il giovane Sanders, che non è, per sua esplicita ammissione, un bravo studente, si neghi agli slanci civili e politici. Negli anni sessanta, mentre frequenta per un anno il Brooklyn College e poi per quattro l’Università di Chicago, facendo i soliti lavoretti per mantenersi, aderisce al Congress of Racial Equality, alla Student Peace Union e alla Young People’s Socialist League. Fa per un po’ il sindacalista nelle file dei lavoratori dei mattatoi, la United Packinhhouse Workers, per poi approdare, alle soglie degli anni settanta, nel piccolo, combattivo Liberty Union Party, un’organizzazione radicale libertaria.

Qui affina la sua vocazione di militante politico di forze minoritarie ma in grado, mediante un sapiente amalgama di idealismo e pragmatismo e un’enorme capacità di coagulo di risorse umane, organizzative e relazionali, di ritagliarsi uno spazio nella vita politica di un piccolo stato con lontane tradizioni progressiste e più recenti fermenti controculturali come il Vermont. Sino appunto alla carica di primo cittadino di Burlington, che tiene per quasi tutti gli anni ottanta, a quella di deputato a Washington, a quella di senatore, da cui spicca il salto per il tentativo presidenziale. Per il quale, pur restando fedele alla propria impostazione, sceglie la strada, inevitabile, dato il sistema statunitense e le sue norme elettorali studiate apposta per bloccare candidati e partiti indipendenti, della corsa all’interno di uno dei due partiti principali. Infatti, come D’Eramo ricorda giustamente, l’ultimo di questi candidati, Ralph Nader, un amico dello stesso Sanders, nel 2000 non portò a casa più del 2,4%, e il record di voto di un candidato o partito terzo nel Novecento resta quello di Theodore Roosevelt col Partito Progressista nel 1912 (27%, ossia 19% del voto dei Grandi Elettori).

Nonostante che talora si definisca progressista, non è tuttavia a questo Roosevelt che Sanders si affida per qualche citazione, ma piuttosto a suo cugino Franklin Delano (Fdr). Tipica, ad esempio, è l’affinità fra certe tirate anti-Wall Street del rivale di Hillary e un celebre intervento di Fdr del 1936. Né, a dispetto dell’autodefinizione di socialista, ci sono in Sanders molte tracce esplicite del padre del socialismo statunitense novecentesco, quell’Eugene Debs che nel 1912, l’anno nel quale il tema centrale della campagna elettorale furono Wall Street e i grandi trust, stabilì il record di voto per i socialisti, col 6% del totale. Debs sfiorò di nuovo questo risultato otto anni dopo, ma in una campagna condotta dietro le sbarre di una prigione federale, dove era finito due anni prima (ci sarebbero rimasto per quasi altri due) per un semplice discorso di critica della guerra durante il primo conflitto mondiale.

In realtà, come sottolinea appunto Postel, la piattaforma di Sanders pare ricalcata su un modello populista fine Ottocento: forte tassazione antimonopolistica, regolamentazione pubblica dei potentati economici, grande impulso all’istruzione pubblica. E la cosa non è poi così peregrina come l’uso ormai estenuato e fuorviante dell’etichetta di «populismo» può indurci a pensare. Più volte infatti questo nostro nuovo millennio è stato apparentato al tardo Ottocento della cosiddetta «età indorata». Lo si chiamava così guardando al capitale e al suo strapotere. Raccogliendo la formidabile spinta di Occupy Wall Street, Sanders ci ha aiutato a vedere il volto di classe dello stesso fenomeno. Lunga vita.