«Ho iniziato a scrivere quando non ero più in grado di scrivere», racconta , professore di letteratura tedesca negli Stati Uniti, tedesco di origine e indirizzato ad una vita da intellettuale fallito.

Poi, come tanti altri, scopre Twitter, comincia a scrivere aforismi e battute basate sul paradosso, sul gioco di parole. Il significato è poco importante, conta il ritmo, l’ironia, e quel Nein così spesso usato. Su Twitter, dove viaggiano sentimenti di una marea umana, spesso preda dell’ego e dell’esibizionismo, il no di Eric Jarosinski fa breccia. I follower aumentano, la notorietà anche.

Un articolo del «New Yorker» lo sdogana al grande pubblico, comincia a collaborare con testate giornalistiche, pubblica un libro di aforismi, pubblicati in Italia da Marsilio (Nein, pp. 137, euro 12).

Il successo diventa globale, tracima dalla Rete e investe la discussione sul fare filosofia, sul destino della network culture, sulla politica.

Alcuni giornalisti paragonano gli aforismi di Jarosinski a quelli scritti tanti anni fa da Theodor W. Adorno. Altri fanno il nome di Friedrich Nietzsche, altri ancora lo stile frammentario di Walter Benjamin. Niente di tutto ciò, dice l’interessato.

Più semplicemente, la sua è un’attitudine critica condensata in 140 caratteri, cioè il vincolo imposto dal social network e usato da Jarosinki come un limite da rispettare al fine della chiarezza e dell’efficacia dei suoi tweet.

Il suo account ha ormai centinaia di migliaia di «seguaci». C’è anche una linea di merchandising per il suo Nein. E come una rockstar, comincia la sua tournee.

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Cosa si aspettava dalla sua attività su Twitter, era pronto a questo genere di successo?

Non mi aspettavo niente, a dire il vero. Volevo scrivere testi filosofici normali, ma non ci riuscivo più. Avevo una specie di «blocco dello scrittore». All’inizio su Twitter scrivevo per me. Poi ho cominciato ad avere un pubblico di giornalisti tedeschi che accendevano il computer nei miei stessi orari. Possiamo dire quindi che si è trattato di un fenomeno mediatico legato al vecchio modo di fare giornalismo. È a questo punto che il diario personale che stavo costruendo è diventato altro. Gli argomenti, i temi che affrontavo sono rimasti «liberi», cioè non seguivano un programma definito a priori, ma ho cominciato a stare più attento alla loro ricezione.

Lei ha una formazione filosofica che ribadisce nei suoi tweet. Vuol dire che in Rete si può fare filosofia solo con la forma dell’aforisma?

Non penso affatto di fare filosofia. Più semplicemente ritengo di poter dare un contributo all’insegnamento della filosofia. Amo però molto autori che hanno scelto l’aforisma per il loro filosofare. Forse sono stato influenzato dalla forma da loro scelta per esprimere concetti e pensieri. Più banalmente, mi sono posto il problema di come possa essere comunicato un concetto in termini semplici e con una chiarezza che spesso è ignorata da molti filosofi.

Molti filosofi affermano che la loro non è filosofia…..

Idea interessante, ma riguarda certo quel che ho fatto e che faccio in Rete. So bene qual è la differenza tra un gioco di parole e il processo lungo, faticoso che porta a definire un concetto o a misurarsi con un tema tipico della filosofia. Ho iniziato giocando con le parole e ho continuato a giocarci. Nel corso del tempo, quando sono cioè uscito dal diario personale, mi sono prefisso un obiettivo: svolgere una traduzione di temi filosofici in un linguaggio che possa attirare l’attenzione di un pubblico più vasto, meno limitato a quello dell’accademia, dove è spesso confinata la filosofia. Il ruolo che mi sono assegnato è dunque quello del traduttore. E lo faccio attraverso il gioco di parole.

Lei è un autore che si misura con la cultura filosofica tedesca con un approccio disincantato con la Rete. Non c’è, infatti, nei suoi aforismi nessun atteggiamento di rifiuto della Rete come ambito che nega la possibilità di sviluppare un pensiero «autentico». Ma non c’è, all’opposto, nessuna propensione apologetica delle possibilità offerte dalla comunicazione on line….

Ho frequentato per più di vent’anni il mondo filosofico tedesco. Anche qui la casualità ha svolto un ruolo importante, perché mi sono avvicinato ai filosofi tedeschi per caso, come per Twitter. Sono stati venti anni molti intensi. Mi sono innamorato della filosofia tedesca, l’ho poi odiata, fino a giungere alla conclusione che era riuscito, forse, a conoscerla. Ho dunque fatto conoscenza dell’altro.

Un’esperienza che invito a fare a tutti gli studenti con i quali parlo, perché conoscere l’altro è un’esperienza entusiasmante. Dopo venti anni passati in Germania, mi sono accorto che mi ero riconciliato con il mio essere americano, cosa che prima mal digerivo. Sono infatti quasi fuggito dal mio paese. Sono tornato a casa arricchito, cambiato, trasformato, cresciuto.

Con l’aumento dei follower sono cambiati i suoi messaggi? Il successo li ha influenzati?

Sono diventato più attento rispetto a quanto scrivevo prima. Quello che mi manca di più adesso è la perdita di un lato personale nei miei tweet.

Come si evolverà al di là del libro il personaggio cui ha dato voce su Twitter?

È già cambiato tantissimo. All’inizio mi occupavo di filosofia, di studi germanici, questo tipo di lavorio accademico mi ha stancato e ho cercato di dare al profilo quello che gli americani chiamano «voce», uno stile e questa voce è subito diventata più politica, Questo ha portato inesorabilmente a due vantaggi: mi posso occupare di questioni che mi interessano e poi ho un potere che ha origine dalla visibilità acquisita in Rete. Questo potere mi permette di indirizzare il mio pubblico verso cose che ritengo importanti. È noto che nel mondo accademico è assente la connessione tra teoria e pratica. In passato ero impegnato nei sindacati, ero un attivista e vorrei che i principi che ho fossero sempre evidenti, pur senza diventare dogmatico.

Evolversi verso un punto politico non è certo una buona cosa per gli affari. Esprimere un punto di vista politico critico verso l’establishment non arricchisce, ma non è certo il successo economico che cercavo all’inizio. Il seguito, l’«audience» che ho mi ha aiutato a vivere facendo conferenze, partecipando a seminari. La scelta di politicizzare i tweet non vuol tuttavia dire assumere posizioni settarie. Spesso vado a vedere i profili dei miei follower; ce ne sono molti da cui si intuisce una posizione politica chiara che non coincide con la mia. Intuisco che potranno esserci dei punti di contrasto, ma sono contento. Per me è importante non il numero delle persone che mi seguono, ma chi mi segue.

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In che modo il conformismo di Twitter influisce sulla sua interazione con il pubblico….

Avrei potuto fare questo libro utilizzando sti di scrittura e argomenti più popolari e riconosciuti, ma volevo trovare il modo di dire alcune cose importanti delle quali tra 10 anni potessi ancora rispecchiarmi. Questo libro è scritto in una forma finora assente per quanto riguarda la filosofia. Oscilla tra lo scherzo, il gioco e la poesia. Quello che lega tutto ciò è il ritmo. Nella traduzione tedesca ad esempio i traduttori con cui ho lavorato a stretto contatto stavano attenti soprattutto a quello che dicevo, ma per me la cosa più importante era il ritmo. La sfida vera all’inizio della scuola di Francoforte era questa: loro usavano l’espressione «lasciare un messaggio in una bottiglia».

La forma, il ritmo e l’ironia rappresentano la forma della bottiglia, la sfida è metterci dentro il messaggio, la cosa funziona soprattutto nel giornalismo e il successo sta proprio nell’unire il vecchio e il nuovo, proprio come ha fatto Walter Benjamin, che non ha avuto timore di misurarsi con la cultura di massa e con le tecnologie che consentivano una diffusione di massa della cultura alta. Il giornalismo forse può essere un veicolo di questa nuova forma espressiva.

In che modo la monetizzazione del suo successo con questo libro e altre attività di marketing, finirà per cambiare o meno la sua presenza su Internet….

Si tende a pensare che chi ha molti follower abbia molto successo, ma questo non si traduce in denaro, neanche per la stessa azienda Twitter. Io lo uso come se fossi una band musicale, guadagno andando in tournee e proprio i musicisti hanno capito bene questo meccanismo. Quindi voglio viaggiare, ma non voglio fare reading normali, perché sarebbero reading di poesia brutta, allora uso un escamotage in cui io faccio da spalla, serio e preciso e do la battuta al video che fa la battuta. Faccio l’accademico e i video creano un cortocircuito che funziona bene. Mi piace molto scrivere cose comiche, ma non sono un attore.

Internet è il posto dove provare a dare forma a una riflessione sul mondo, sapendo che la costruzione dell’audience, del pubblico è un lavoro vero e proprio. Nella Rete è però ammesso di tutto. Posizioni conformiste e posizioni anticonformiste. Consenso verso il pensiero dominante e dissenso anche radicale rispetto lo status quo. Ciò che conta è che il flusso non si interrompa mai. Cosa ne pensa?

La contraddizione è parte integrante del mio essere in Rete. Posso dire che uno dei miei propositi all’inizio di questa avventura era di costruire un solidarietà verso un punto di vista critico, senza, lo ripeto, nessuna pretesa dogmatica. Partivo dal presupposto che avevamo perso tutto e che non c’era niente altro da perdere. Volevo solo esprimere l’adesione ad alcuni principi. Se questo è comprensibile dal punto di vista personale, per la dimensione pubblica questo richiamo a dei principi è inerente all’ethos, cioè a una etica pubblica. Volevo però rivolgermi a una comunità di chi non ha più nessuna comunità alla quale appartenere.

In Rete c’è un pubblico indistinto, generico. Mi rivolgevo e mi rivolgo a chi condivide una dimensione critica sulla realtà, ma senza mai cadere nell’insulto, nell’attacco frontale verso chi esprime invece un punto di vista diverso. I social media sono il regno della personalizzazione della critica. Più che attaccare posizioni diverse dalle proprie, si Internet si preferisce insultare la persona.

Da parte mia, invece, preferisco procedere così: questa è la mia posizione, voi che ne pensate? Come dicevo: penso a una comunità di chi non più comunità di appartenenza, di chi ha cioè perso già tutto.

Per quanto riguarda la Rete, non credo che Internet cambierà la realtà. Sono stato un attivista, ho usato il telefono, le mailing list, gli sms, i primi social media per pubblicizzare sit in, manifestazioni. Sono però persuaso che senza un rapporto vis-à-vis non riuscirai mai a convincere una persona a partecipare una manifestazione. Se viene meno questo rapporto in presenza, puoi raccogliere molti «mi piace» o il tuo tweet potrà essere rilanciato, ma nessuno si impegnerà in prima persona. Tra i miei follower ci sono giornalisti impegnati, attivisti, teorici critici dei media, ma questa comunità dei senza più comunità rimane relegata alla Rete. Per cambiare la realtà serve molto più che un «mi piace».

https://twitter.com/NeinQuarterly/status/657249098681159680