Anche in una città abituata e indifferente alle celebrità come Roma ha destato sensazione la presenza all’Opera di Roma di Sofia Coppola e soprattutto di Valentino Garavani, responsabili di regia e costumi di una Traviata completamente sold out già varie settimane prima del 24 maggio, data del debutto. Mettendo da parte la sgargiante fiammata di mondanità vera e farlocca dell’anteprima a inviti del 21 maggio, l’operazione nel complesso può dirsi riuscita. Costruire un’intera operazione su quattro abiti disegnati per Violetta Valery da Valentino, accostati all’ottimo lavoro di Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Pìccioli direttori creativi della Maison Valentino per gli altri costumi, coro compreso, poteva comportare vari rischi. Inoltre Sofia Coppola, che pure nei suoi film ha proposto ritratti drammatici di personaggi femminili, debuttava nella regia operistica, portando con sé lo scenografo cinematografico Nathan Crowley, forse l’anello più debole della catena.

L’apporto delle ottime professionalità del teatro romano ha risposto efficacemente alle necessità del caso, raccogliendo sollecitazioni registiche e impulsi visivi dati dalla inusuale preponderanza degli abiti, convogliandoli in un prodotto ben realizzato. Lo spettacolo, di impianto rigorosamente tradizione risulta dunque godibile. Il segno di Sofia Coppola si coglie più nelle scene di massa e nell’ultimo atto, con la morte di Violetta e il baluginare del carnevale su Parigi. E Verdi? E la musica? Francesca Dotto (che nelle repliche si alterna con Maria Grazia Schiavo, due italiane e due cantanti giovani ) conferma la sua solidità come interprete di Violetta.

Supera gli scogli del primo atto e offre il meglio fra il secondo atto e l‘epilogo e non sembra intimorita dall’attenzione creata intorno alle creazioni di Valentino. Antonio Poli tratteggia un Alfredo piuttosto baldanzoso, mentre Roberto Frontali offre un Germont molto partecipe. Più di una perplessità sul podio per i tempi irregolari, talvolta bruschi, di Jader Bignamini, che pure ha gesto chiaro e ricerca una costante tensione drammatica nell’arco dell’opera. Buona la prestazione di orchestra e coro. L’Opera di Roma quest’anno si è guadagnata un premio Abbiati per la produzione di Bassarids di Henze con regia di Martone, ha portato sulla scena un geniaccio come Terry Gilliam per un colossale Benvenuto Cellini e ha centrato il Trittico pucciniano con la regia di Michieletto.

Mettere in guardaroba una produzione «glamour» di forte richiamo popolare è una soluzione di management fruttuosa, visto il coinvolgimento economico della Fondazione Valentino, ma anche una proposta artistica plausibile. Per la Traviata del secolo forse aspetteremo, ma intanto il teatro è strapieno e lo spettacolo non lascia affatto l’amaro in bocca rispetto a recenti produzione di palcoscenici più iridati.