«Ho perso, mi prendo tutta la responsabilità», «l’esperienza del mio governo finisce qui, perché non possono restare tutti incollati alle loro abitudini prima che alle loro poltrone. Non ce l’ho fatta e la poltrona che salta è la mia». Poco dopo la mezzanotte il presidente del consiglio si presenta a Palazzo Chigi alle telecamere e rassegna in diretta tv le sue dimissioni da premier. Oggi pomeriggio salirà al Colle per farlo davvero, rispettando la Costituzione che gli elettori gli hanno impedito di modificare male. Renzi si commuove quando ringrazia la moglie Agnese e i figli, quando manda «un abbraccio forte agli amici del Sì».

Finisce qui, dice lui, la storia del governo Renzi. Seppellito da una valanga di No. Mentre il manifesto chiude questa edizione poco più della metà delle schede scrutinate dicono No al 59,5 per cento e Sì al 40,5.
È una sconfitta netta, annunciata da ore. Quando manca più di un’ora alla chiusura dei seggi, gli exit poll in teoria ancora sotto embargo. Ma la notizia è clamorosa, non si trattiene, straripa sulla rete, nei canali tv che stanno per dare inizio alle loro maratone. La forbice fra No è Sì è impressionante. Quando, a urne chiuse comincia lo spoglio reale delle schede, è pure meglio. Peggio per il governo e la sua maggioranza.

La sconfitta è irreparabile, definitiva. Forse non inaspettata, ma difficile da governare date le dimensioni. Una sportellata senza precedenti. Forse, in scala, il risultato delle scorse amministrative era stata un aperitivo, un assaggio, una premonizione. Che Renzi e i suoi però non hanno voluto forse saputo vedere.

È una valanga quella che seppellisce la proposta di riforma Renzi-Boschi, e con la riforma dà uno scossone al governo, alla sua maggioranza e al Partito democratico. Al Nazareno tira un’ariaccia già alle otto di sera. I sondaggi riservati circolano fra le scrivanie e non lasciano margini di dubbio da giorni. Tetragoni alla realtà che bussa alle porte, quelli del comitato Bastaunsì non hanno smesso la propaganda. Uno degli ultimi sms distribuiti a pioggia agli elenchi dei votanti delle primarie: «Siamo in fortissimo recupero. Siamo sul filo dei voti. Gli sforzi di queste ore possono essere decisivi. Avanti tutta, basta un Sì». Alla mezzanotte di domenica questi messaggi sembrano una beffa grottesca, quella di un partito (e un governo) che ha voluto testardamente andarsi a schiantare a tutta velocità contro il muro della propria autosufficienza.

È Lorenzo Guerini, alle 23, a metterci la faccia. Il vicesegretario è terreo. Laconico. «Renzi parlerà in conferenza stampa fra circa un’ora. Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo la direzione nazionale per l’analisi dell’esito referendario». Al partito sono arrivati Deborah Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda, il ministro Dario Franceschini. Al Nazareno circola la voce che se le dimensioni della sconfitta restano queste delle prime ore della notte martedì potrebbero arrivare le dimissioni di Renzi, stavolta da segretario del Pd. Del resto le aveva promesse all’inizio della sua corsa referendaria, cambiando poi parecchie volte opinione. Ma è difficile: «È tempo di rimettersi in cammino» dice alla fine del suo discorso di Palazzo Chigi. Mentre Guerini parla, Renzi da tempo ha dato appuntamento ai giornalisti, segnale inequivocabile di sconfitta. Gli elettori e le elettrici hanno dimostrato di non apprezzare nulla di lui: la riforma, la boria, l’insulto dell’amico e del nemico, la narrazione tossica delle proprie leggi, i mille giorni di governo, mille giorni di errori da meditare.

Dall’altra parte «l’accozzaglia» gioisce, ciascuno con il suo stile e la sua misura. Il primo a scattare è Matteo Salvini. Il primo a chiedere le dimissioni di Renzi: «Se i dati verranno confermati, gli italiani Renzi lo hanno rottamato». Dimissioni vengono chieste a gran voce da tutta la destra: Giorgia Meloni, Renato Brunetta. Ma il prossimo governo dovrà fare una legge elettorale nuova, dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sull’Italicum. A meno che non la bocci per intero.

Da sinistra i toni sono tutt’altri. L’«accozzaglia» non è un fronte politico comune, a differenza di quello che Renzi e i suoi hanno ripetuto fino allo sfinimento in campagna referendaria, a reti unificati. Senza mai convincere elettori ed elettrici. Arturo Scotto, di Sinistra italiana, chiede un intervento del Quirinale. «Renzi lascia un campo di macerie, ora ci affidiamo alla saggezza del presidente Mattarella». La sinistra bersaniana, riunita in una casa privata, frena i commenti. Non è il momento di assecondare pulsioni autodistruttive, il partito è già nel caos. «Eravamo nel giusto», dice solo Roberto Speranza.