Quando, nell’ottobre del 1940, i nazisti imprigionarono i cinquecentomila ebrei di Varsavia in un ghetto di tre chilometri quadrati, oltre che dello spazio, della dignità e della libertà li privarono del cibo. Un minuzioso programma (Der Hungerplan) prevedeva infatti che gli «indesiderabili» dei paesi occupati ricevessero solo minime quantità di nutrimento e finissero per scomparire grazie alla pura e semplice fame: «della questione ebraica rimarrà soltanto un cimitero» scriveva il governatore tedesco. Fu allora che alcuni medici ebrei, nell’impossibilità di salvare i propri pazienti, diedero il via a un vero e proprio programma di indagini cliniche, riunendosi clandestinamente in un cimitero fino a elaborare un piccolo, ma ricco di casi, trattato sull’inedia, che venne contrabbandato all’esterno e infine pubblicato nel 1946, perché altri studiosi potessero servirsene.

È uno degli infiniti episodi inclusi in La fame dell’argentino Martín Caparrós (tradotte a sei mani da Sara Cavarero, Federica Niola e Elena Rolla, in modo diseguale e non sempre impeccabile, Einaudi, «Passaggi», pp. 722, euro 26,00), che non manca di ricordare anche un suo privato legame con gli affamati del ghetto: la sua bisnonna sopravvisse in qualche modo con l’esigua razione di pane e minestra, almeno fino alla deportazione nel campo di Treblinka. L’ombra di questa remota vicenda familiare, sia pure appena accennata, contribuisce a rafforzare l’impressione di profondo, quasi rabbioso coinvolgimento con cui Caparrós affronta un tema imponente e lo travasa in un libro altrettanto imponente, frutto di cinque anni di ricerche, di studio, di viaggi, di colloqui: un testo così articolato e complesso da non poterne apprezzare la qualità divulgativa, la forza narrativa e la vis polemica se non leggendolo, la prima volta di un fiato e la seconda per riflettere a dovere sullo sguardo nuovo che l’autore posa su cose già note a chi abbia una certa familiarità con l’argomento, ma di rado riunite e intrecciate in modo così originale e stimolante.

Organizzato secondo capitoli sapientemente alternati, La Fame è allo stesso tempo un excursus storico (l’autore, nato a Buenos Aires nel 1957, durante gli anni di esilio trascorsi in Francia si è laureato in Storia alla Sorbona), un saggio ben documentato sulla geografia della fame e sui meccanismi che presiedono al suo perpetuarsi, una raccolta di racconti che trascendono l’impersonalità delle cifre e dei dati – che pure non mancano – e infine un autentico pamphlet, una provocazione etica e politica su quella che è la più violenta metafora dell’insostenibile disuguaglianza in cui viviamo e accettiamo di vivere, in seno al nuovo ordine neoliberista. Perché, sottolinea l’autore, la vera madre degli affamati non è la povertà di molti, ma l’eccessiva e onnipotente ricchezza di pochi, coloro che ogni tanto gettano un sacco di grano («il vecchio trucco della carità») a milioni di persone inutili perfino come mano d’opera a buon mercato: «i superflui, quelli di troppo», gli effetti collaterali, i residui che il capitalismo si lascia dietro: d’altronde, un genocidio troppo esplicito non riuscirebbe bene in televisione.

Dal Niger all’India, dal Bangladesh al Sudan del sud al Madagascar, senza tralasciare l’Argentina, con i suoi sojeros che divorano terreno per produrre soia e mais destinati all’esportazione (in Cina la domanda di carne cresce e i maiali vanno nutriti, al contrario dei sottoproletari locali che cercano cibo nella spazzatura), e senza dimenticare gli Stati Uniti, che negli anni ’90 sono stati i primi a «finanziarizzare» gli alimenti e dove l’obesità dei poveri corrisponde alla malnutrizione diffusa in altri paesi, Caparrós indaga e riflette, demolendo i luoghi comuni più consolidati e non risparmiando nessuno, da celebri economisti come Amartya Sen a icone come Madre Teresa, dal Fmi alla religione, dagli speculatori della Banca di Chicago a tutti noi. E, parallelamente, racconta vite e volti, ci restituisce nomi e voci, parla di persone prima che di «poveri», confrontandosi con il rischio della retorica e della lacrima facile, di un meccanico politically correct e soprattutto dell’ovvietà: perché è innegabile, lo sappiamo, che il discorso corrente sulla fame sia fin troppo spesso abusato, logoro, stanco, di quelli che ormai si ascoltano distrattamente e guardando da un’altra parte.

Se Caparrós riesce a sfuggire a simili trappole è per via della lunga esperienza giornalistica cominciata negli anni ’70 a Noticias, il quotidiano di Rodolfo Walsh e Miguel Bonasso, e proseguita in giornali e riviste importanti, ma soprattutto grazie a un talento di narratore e a una capacità di scrittura che lo hanno reso anche eccellente romanziere e uno dei migliori (o il migliore tout court) nel campo della cosidetta crónica o periodismo narrativo, genere (se così vogliamo chiamarlo) eminentemente latinoamericano, che racconta la realtà com’è, senza nulla omettere o aggiungere, ma usando gli strumenti della letteratura. Una «forma» diventata oggi fin troppo di moda, nonostante i suoi spazi editoriali restino relativamente ridotti, ma che secondo Caparrós non è poi così nuova ed è stata semplicemente rinominata, bloccandosi spesso su procedimenti e modelli già cristallizzati sin dagli anni cinquanta.

L’aspetto interessante della crónica – frequentata nel tempo da nomi illustri come Rodolfo Walsh, Tomás Eloy Martínez e García Márquez – sta invece nella possibilità di venire elaborata in modi sempre diversi, che le consentono via via di adattarsi, senza tradirla, alla realtà da raccontare: e proprio qui sta la forza del libro titolato La fame. Perché il suo autore, formatosi al tempo in cui la parola avanguardia aveva ancora un senso (fu lui, insieme a Luis Chitarroni e Alan Pauls, a fondare una rivista letteraria come Babel, decisa a sperimentare e a rompere con i canoni consacrati), un tempo in cui «non si veniva scritti dal mercato» e quella di rivendicare una collocazione letteraria di confine era una scelta politica e non un capriccio o un ripiego, resta convinto che pensare e leggere il mondo in un altro modo passi anche attraverso «nuove forme del dire, forme diverse del dire».

Qui, nonostante il tema si prestasse più di ogni altro a inciampi e scivoloni, la scommessa è vinta, come lo era del resto in altre opere di Caparrós, per esempio El Interior (un viaggio attraverso la sconfinata provincia argentina), o La Voluntad, sui terribili anni settanta con cui l’Argentina non finirà mai di fare i conti; ma se questi due libri sono collocabili nel territorio della crónica pura, La fame si spinge un passo più in là, e, con la sua riuscita ricerca di un tono giusto e del giusto stile, con il suo continuo scivolare da un genere all’altro, si propone come un ibrido nuovo e avvincente in cui forma e contenuto sono perfettamente funzionali l’uno all’altro. E dall’inizio alla fine, inoltrandosi in un inevitabile labirinto di contraddizioni, Caparrós continua a chiedersi perché stia facendo quello che fa, perché abbia scelto di scrivere proprio della fame, pur essendo consapevole del fatto che nulla di quanto scrive cambierà la situazione di milioni di affamati, né influirà sui meccanismi che li affamano, né potrà davvero offrire, insieme alle domande e alla denuncia, anche qualche soluzione.
Le risposte sono molte: una di queste la leggiamo già nell’epigrafe del libro, è una frase di Samule Beckett che suona così: «Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio». La seconda sta probabilmente nel desiderio di farci vedere quel che non vogliamo vedere e ascoltare voci che non vogliamo sentire. La terza ce la ripete più e più volte l’autore stesso: «Perché se non lo facessi mi odierei». E un’altra ancora possiamo trovarla nelle righe di chiusura: «Se questa fosse – e qualche dio ce ne scampi – una favola, un animale direbbe non pensare mai che certe cose succedano solo agli altri.Visto che non è una favola, l’animale se ne starà zitto. E ricorderà solo quello scemo che ripeteva mai dire mai…»