Quando, alcuni mesi fa, si è diffusa la notizia della prossima (e ormai attuata) fusione tra Rizzoli e Mondadori, si è subito temuto che i conseguenti contraccolpi editoriali potessero minacciare la sopravvivenza di collane storiche. E lo si teme tuttora. Tra queste, la collana più esposta sembra «Lo Specchio», da decenni considerata la sede ufficiale della poesia in Italia, la più frequentata da autori riconosciuti: gli ultimi libri pubblicati sono di Buffoni, Santagostini, Majorino, De Angelis (e, tra gli stranieri, di Heaney, Levine, Krüger).

Se n’è parlato sui giornali e per radio, cogliendo l’occasione per riflettere sulla relazione attuale tra poesia, pubblico e mercato. Una questione, o un nodo di problemi, a cui s’intrecciano due elementi cruciali: i valori e la mediazione. Perché ci si allarma se chiude «Lo Specchio»? Poesie se ne scriveranno ancora e ancora ne verranno pubblicate, in forma di libro o in rete, dove il genere ha una circolazione notevole, addirittura insospettabile per chi si limita a frequentare le librerie. Credo allora che la preoccupazione non riguardi tanto la poesia in sé, quanto la legittimazione di chi la scrive: sia di coloro che stanno dentro il campo dei valori affermati, sia di coloro che costruiscono una rappresentazione alternativa (e, in qualche caso, uno stile originale) rispetto a quel campo. Perché questa dinamica, scontata (e talvolta stucchevole) ma tutto sommato sana, possa attuarsi è necessaria l’esistenza di un riferimento cui mirare, per aderirvi o prenderne le distanze. «Lo Specchio» è questo riferimento, è l’immagine in cui confluiscono il capitale concreto (la grande Casa editrice) e quello simbolico (i grandi poeti e i poeti funzionari: Sereni, i ‘santi padri’ del secondo Novecento). È tradizione, nel senso di trasmissione di valori e posizioni riconoscibili; è, in definitiva, mediazione.

Sennonché, la poesia oggi ha un problema con la mediazione; si dice, e probabilmente è vero, che se ne scriva più di quanta se ne legga, il che rende sempre più difficile e parziale l’espressione di un giudizio non occasionale. La democrazia della rete contribuisce poi ad abolire, nel bene e nel male, i filtri intermedi. C’erano e ci sono le antologie, ma ormai le migliori non possono esercitare una mediazione se non a un livello già alto, dove in effetti serve di meno: penso ai due esempi, opposti ed entrambi eccellenti, di Dopo la lirica e Parola plurale. Uscite entrambe dieci anni fa, le due antologie sono semplicemente troppo colte perché un lettore medio (o uno scrivente-non-lettore) di poesia possa servirsene. Peggio per lui, ma alla fine peggio anche per la poesia.

Credo che ci sia proprio la coscienza di problemi simili all’origine di alcune recenti iniziative editoriali, concepite con una formula efficace: un critico e autore di grande competenza e prestigio, noto anche oltre la cerchia dei professionisti, sceglie e commenta poesie più o meno canoniche di autori importanti, italiani e stranieri. Alla finezza delle presentazioni si mescola a tratti l’understatement, ottenuto attraverso l’uso di un registro medio e per mezzo di studiati sconfinamenti dai settori di più diretta competenza, accademica o culturale in genere. L’avvicinamento al lettore è favorito dall’esercizio libero del gusto e dal privilegio – vorrei dire: dallo sfizio – della scelta non sistematica, ma sicura e rappresentativa: tanto dei percorsi intellettuali del critico quanto di forme e generi della poesia.

Questo tipo di raccolta sta all’antologia come la Wunderkammer sta al museo: le meraviglie sparse nell’una non hanno la stessa funzione delle collezioni ordinatamente conservate nell’altro, ma possono più facilmente invogliare a una visita e impressionare il curioso. Fanno questo, e lo fanno bene, due libri usciti quasi insieme in queste settimane: uno di Valerio Magrelli, l’altro di Walter Siti. Il primo è intitolato Millennium poetry e consiste in una serie di trentanove letture, dall’Indovinello veronese ad Amelia Rosselli, disposte in base al secolo di nascita degli autori (attivi nei confini italiani o che, come Milton, hanno scritto versi anche in italiano).

Il secondo libro, La voce verticale 52 liriche per un anno (Rizzoli «La Scala», pp. 464,euro 20,00), raccoglie le schede composte per la rubrica settimanale «La poesia del mondo», tenuta da Siti su Repubblica nel corso del 2014. Se Magrelli allude alla dialettica nazionale/internazionale giocando sul numero 39 (il prefisso telefonico dell’Italia), Siti può contare sul ritmo originario della collaborazione giornalistica per scandire il libro in base al calendario, quasi alludendo, più o meno fortuitamente, a una forma nobile e canonica: in La voce verticale, tante poesie quante sono le settimane in un anno; nel Canzoniere di Petrarca, tanti fragmenta quanti i giorni più uno, 366. Anche in coda al libro di Siti c’è una giunta: Cinque rimpianti, cioè poesie di cinque autori (Brecht, Sylvia Plath, Borges, Pasternak, Mallarmé) rimaste fuori dalla rubrica e ora recuperate. La voce verticale spazia dall’antichità (Saffo, Orazio) alla contemporaneità, passando per epoche e tradizioni diverse; le poesie non sono presentate in cronologico né vengono adottati altri evidenti criteri organizzativi. Il maggiore eclettismo può apparire una concessione al gusto midcult; ma qui, accanto ai classici (da Dante a Tasso, da Leopardi a Pascoli e Montale) e ai grandi ‘soliti’ Nobel (Brodskij, Walcott), si trovano autori inattesi (Contessa di Dia, ‘trovatrice sospetta’ – che fosse un uomo in realtà? – tra le poche voci femminili che la raccolta include), o ai margini del canone (Noventa, Penna), o di culto, sì, ma highbrow (come Kavafis, Larkin, Rosselli).

L’obiettivo dichiarato da Siti nella prefazione è quello di ricordare, nel generale contesto di insignificanza sociale cui la poesia sembra relegata, l’«ampiezza del ventaglio, la varietà delle opzioni possibili». In comune, gli autori e le poesie convocati da Siti hanno la prossimità al limite, oltre il quale «il linguaggio suggerisce una pienezza che rimanda oltre il linguaggio» e il controllo del senso sfugge in parte agli stessi poeti: non eletti per vocazione, come l’opinione comune vorrebbe, ma al servizio della propria stessa ambizione espressiva, della parola verticale che li raggiunge. È un’idea suggestiva, che entra in relazione con una poetica e un’ermeneutica della lirica che ammettono e valorizzano il suo nucleo di mistero: la poesia come «regno della metafora» e della «condensazione onirica». Non a caso, anni fa, Siti ha dato un’affascinante lettura di «Iride», la sola lirica di Montale che, a detta dello stesso autore, meritasse «appunti di obscurisme».

Non tendono all’oscurità, per fortuna, le spiegazioni delle poesie: Siti mette sempre in evidenza i particolari rilevanti, i dati necessari, gli elementi essenziali del contesto (qua e là semplificando e attualizzando); sulla forma e sugli aspetti artigianali si ferma quanto basta per mettere il lettore in grado di capire. In questo, La voce verticale mostra un’efficacia comunicativa e didattica senza la quale non si dà mediazione. Ciò anche grazie a qualche ricordo significativo, che letto oggi è quasi un auspicio, come questo sull’esordio di Milo De Angelis (Somiglianze, 1976): «ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?».