Può il ‘classico’ essere seriale? E la serialità può diventare un ‘classico’? Intorno a questi temi ruota la mostra Serial Classic a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola, in corso a Milano fino al 24 agosto, che ha inaugurato la nuova sede espositiva della Fondazione Prada nel capoluogo lombardo: una distilleria di primo Novecento rinnovata da Rem Koolhaas e dal gruppo OMA di Rotterdam, pensata per diventare un punto di riferimento per l’arte contemporanea, ma prestata, nel suo esordio, all’archeologia.

Perché Serial Classic è una mostra sull’arte antica. Non solo, è una mostra dagli intenti ‘didattici’, che vuole insegnare qualcosa: prima di tutto, come chiarisce Settis nel catalogo (Serial/Portable Classic: The Greek Canon and its Mutation, Progetto Prada Arte, 388 ill., pp. 392, euro 70,00), a prendere le distanze da quell’idea ancora oggi radicata, secondo cui l’arte classica (greco-romana) sarebbe stata sempre irripetibile, originale e normativa. A questa idea la mostra contrappone un’accurata indagine delle diverse forme di serialità presenti nella scultura antica: una tema, forse il più ‘anticlassico’ del mondo classico, già oggetto negli ultimi quarant’anni di particolare attenzione da parte degli archeologi (tra i quali la stessa Anguissola, nel saggio per L’Erma di Bretschneider «Difficillima imitatio». Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma, 2012), ma che non aveva trovato ancora, in una sede espositiva italiana, l’occasione per uno sviluppo così generoso: non dunque la celebrazione idealizzata di un mondo antico conosciuto solo per quelli che le vicissitudini storiche ci hanno consegnato come capolavori ‘unici’, ma lo studio attento di un’arte già ab antiquo moltiplicata, proposta a Milano in tutta la sua materialità, svelandone processi operativi e strategie artigiane.

I casi del Discobolo di Mirone, della Venere accovacciata di Doidalsa e del Satiro in piedi di Prassitele illustrano la vicenda forse più nota della serialità nell’arte antica: quell’ansia (romana) di ripetere in marmo alcuni ‘classici per eccellenza’ (greci) in bronzo diffusasi tra I e II secolo, che occupa un posto di rilevanza in Serial Classic, ma non esaurisce la scena. Gli episodi si moltiplicano: dalle riproduzioni prodotte già in Grecia di opere greche alla ricca varietà materica delle copie romane, dalla vicenda affascinante del colore nella scultura classica (ora perduto) all’iterazione umilissima, di bottega, della produzione fittile. Al pubblico è così consegnata l’immagine di una vera e propria ‘industria della scultura’ nell’antichità, che non può essere misurata sulle sole sopravvivenze, come dimostra la vetrina dedicata all’inizio della mostra ai pochissimi resti delle tremila statue bronzee che decoravano un tempo Olimpia. Un sistema dell’arte che viene per questo ricostruito in mostra attingendo da materiali eterogenei, antichi e moderni: opere rare, come la Penelope di Teheran, ma anche calchi in uso da quasi un secolo nelle aule universitarie europee, originali bronzei greci e terrecotte della Magna Grecia, copie marmoree romane e loro interpretazioni barocche, proposte ricostruttive ormai storiche e nuove ipotesi di lavoro datate «2015».

Nell’allestimento ineccepibile del cosiddetto Podium (lo spazio espositivo su due piani della Fondazione Prada, dove si svolge la mostra), curato dallo stesso Koolhaas, questa selezione di opere diventa parlante. La filologia dello studioso si trasforma in espressione visiva, in un linguaggio aperto e convincente. Nel primo livello, la presenza su tre lati di vetrate crea un ambiente particolarmente adatto all’esposizione della scultura, che di rado nei musei (e di fatto mai nelle mostre) si riesce a leggere con una luce tanto naturale. Inoltre, alle statue ci si può avvicinare molto, da più direzioni e a più altezze, grazie a delle lastre di travertino iraniano collocate su vari livelli che creano lievi sommità o conducono in simboliche cave di scavo, trasformando la sala in un ‘paesaggio’ (come sottolinea lo stesso architetto olandese nel catalogo) dove muoversi liberamente, passando da un gruppo di opere all’altro. La sensazione è di luminosa piacevolezza, soprattutto a confronto con altre mostre, dove il pubblico è imprigionato in un iter prestabilito, scandito da sale in ferrea successione. Sul Podium invece lo spazio espositivo in ognuna delle due sale si può misurare con un solo sguardo e si può scegliere dove andare, davanti a cosa fermarsi, cosa tornare a vedere, gestendo in piena autonomia il proprio tempo.

Se la serialità è il grimaldello che i curatori offrono al pubblico per leggere il mondo antico in modo non banale, nelle sue increspature e nelle peculiarità del suo pensiero, le singole strategie espositive, che suggeriscono ma non impongono i punti di vista, riescono a rendere visibili queste increspature, queste peculiarità, e a concretizzare i nessi figurativi e culturali tra le diverse opere: ecco dunque che un bronzetto del II secolo raffigurante il Discobolo, posto su un piccolo podio, diventa il punto di osservazione privilegiato per misurare, su una copia romana ben conservata, la libertà di un artista settecentesco davanti a un frammento antico; ma anche per capire quanta libertà potessero avere gli stessi scultori romani nel rileggere i capolavori greci, declinandone di volta in volta le peculiarità a seconda del materiale e delle dimensioni richiesti, tanto da lasciare, a ogni moderna ipotesi ricostruttiva, sfuocata l’immagine di quei prestigiosi ‘originali’.

Al piano superiore, è la visuale imposta dal corridoio che introduce nella sala a svelare, allineando alcuni Aristogitoni, come funzionasse il sistema dei calchi in gesso in uso nell’antichità. Accanto, un torso con segnati ancora i ‘punti di misurazione’ ci rassicura invece sul fatto che nel mondo classico era ammessa tanto la variante del canone, quanto la sua ripetizione più pedissequa, quanto addirittura l’emulazione ‘tecnica’ (ovvero per noi ‘creativa’) del modello. Anche le funzioni della serialità antica sono indagate, come nel caso dei quattro Satiri versanti in marmo, provenienti dalla stessa villa di Castel Gandolfo. Disposti per essere visti frontalmente dall’esterno del Podium e non dal suo interno, i quattro giovinetti ben torniti finiscono per assomigliare a dei manichini nella vetrina di un grande magazzino: un espediente espositivo che senz’altro ammicca con leggera ironia alla città (e anche al committente) della mostra, ma non trascende il dato archeologico, anzi l’esalta: perché le quattro statue erano già in origine esposte insieme, come multipli, all’interno dello stesso ambiente romano, secondo un gusto per l’iterazione che spiazza chiunque arrivi in mostra con un’idea assoluta dell’Antico. Non senza qualche divertito riferimento un po’ pop, queste suggestioni visive aprono su un mondo classico che appare più abbordabile, meno algido, ancora da conoscere, nel quale le statue non sono innalzate su piedistalli, ma appoggiate direttamente sulle stesse lastre di travertino dove si muove il pubblico.

Il dialogo tra antico e presente costituisce uno dei temi centrali del saggio Il futuro del “classico” di Settis (Einaudi 2004), con cui è coerente il programma sotteso non solo a Serial Classic, ma anche alla sua mostra ‘gemella’, Portable Classic, in corso a Venezia a Ca’ Corner della Regina (sempre Fondazione Prada, sempre Koolhaas e sempre Settis, ma questa volta insieme a Davide Gasparotto), dove il ciclico riproporsi del ‘classico’ è documentato dalle copie in piccolo, rinascimentali e oltre, di celebri statue antiche. Nella mostra milanese è questo teorizzato dialogo tra antico e presente a prendere vita, grazie a un gioco di rimandi visivi raffinatissimo. Perché, nel mettere in scena la serialità della scultura classica in uno spazio espositivo che sarà dedicato all’arte contemporanea, la mostra rivolge innanzitutto un tributo proprio all’arte del secondo Novecento (e al ruolo che Milano ha avuto come suo palcoscenico), che nella serialità ha acquisito un suo fondamentale binario espressivo. Da qui, sembra suggerire Serial Classic, sono ripartiti gli studiosi per riflettere sulle altre serialità antiche e moderne. Da qui ora il pubblico della Fondazione Prada può apprezzare, con strumenti conoscitivi calibrati anche sul contemporaneo, questo nuovo, importante, ‘ritorno al classico’.