Abbiamo incontrato a Roma, lo scrittore azerbaigiano, Kamal Abdulla, autore del libro Il manoscritto incompleto (Sandro Teti editore, pp. 240, 12 euro, prefazione di Franco Cardini). Il libro, inizialmente pubblicato a puntate sulla stampa azerbaigiana, è stato definito il «romanzo dell’anno» ed è stato tradotto in 26 lingue.
Qual è il tratto distintivo della lingua azerbaigiana tra gli idiomi turchici e quando si è affermata come lingua scritta?
L’azerbaigiano fa parte delle lingue turchiche e ha le sue radici in quella turca. Fino al XIV secolo, la letteratura azerbaigiana è stata prevalentemente orale, come dimostra L’epopea di Dede Korkut. Da quel momento, la lingua turca e azerbaigiana si sono allontanate, ma già quell’opera conserva strutture presenti nell’azerbaigiano moderno oltre a una serie di topoi in Georgia, Iran e Turchia dove continuano a vivere molti azerbaigiani. Come nell’Europa medievale, il latino fungeva da lingua franca, così era in questa regione per la lingua persiana. Un poeta come Nizami Ganjavi scriveva in persiano. Lo stesso ruolo di Dante nel passaggio dal latino al volgare in Italia è stato assunto da Shah Ismail (Khatay) e Fuzuli per l’azerbaigiano, come Ali Shir Navai per il neo-uzbeko. Proprio Khatay è uno dei personaggi del mio romanzo, uno degli ultimi «signori» della Turchia.
Cosa è accaduto alla lingua azerbaigiana durante l’impero Ottomano?
In epoca Ottomana, la lingua azerbaigiana era farcita di termini persiani ma in strada si parlava turco, come in Italia si parlava il nuovo italiano mentre le opere letterarie erano scritte in latino. Nel XIX secolo, venne fondato il primo giornale in azerbaigiano Pakhar (Il seminatore) e nel 1806 fu messa in scena la prima opera in azerbaigiano Leyli ve Medzhnun (di Fuzuli). Così come la prima università laica venne aperta nel 1818: queste sono le prime rondini dell’Oriente musulmano… Nella seconda metà del XIX secolo, Mirza Fatali Akhundov iniziò la lotta all’alfabeto arabo avviando un progetto basato sul latino. Dal 1901 al 1903 vennero pubblicate decine di giornali in lingua azerbaigiana. Il grande boom petrolifero ha fatto poi del paese il centro dello sviluppo economico e culturale della regione. Nacquero opere satiriche (e il periodico Molla Nasreddin) e commedie in azerbaigiano. E così quando il potere sovietico si impose in Azerbaigian, esisteva già una grande e ricca cultura. I giornali avevano i loro manifesti, una visione culturale ed erano spesso in conflitto tra loro. Molti vennero chiusi all’epoca dell’ideologia unica e gli intellettuali emigrarono allora in Turchia, altri furono spediti in Siberia. Tuttavia il potere sovietico produsse una nuova generazione di letterati, lo Stato si dedicò a coltivare la letteratura, nacquero il sindacato dei giornalisti, quello degli scrittori, ecc. Vennero fondate varie riviste e aperte le facoltà di giornalismo. Questa generazione di autori creò una nuova lingua letteraria, assorbendo l’influenza sovietica. In questo contesto, nacque in Azerbaigian la prima Repubblica democratica laica in un paese a maggioranza musulmana, prima della Turchia di Atatürk. Il primo congresso dei popoli turchici si è svolto proprio a Baku, qui si decise di passare all’alfabeto latino. Nel ’39, Stalin introdusse l’alfabeto cirillico per la lingua azerbaigiana, e solo con l’indipendenza si passò a quello latino.
«Il manoscritto incompleto» può essere definito un romanzo epico con una decostruzione moderna?
Concordo con questa definizione. La quintessenza del romanzo è non creare idoli. È un romanzo storico ma non è un romanzo storico; è su Dede Korkut ma non è su Dede Korkut; è sulla verità ma forse è solo un sogno. Un ricercatore turco mi ha accusato di aver trovato il tredicesimo racconto dell’epopea di Dede Korkut, di averlo saccheggiato e rapinato. Mi chiedono se davvero io abbia trovato un manoscritto incompleto. In verità, uno degli elementi più importanti del post-modernismo è il lavoro con il testo. Gli episodi che racconto forse non sono avvenuti all’epoca di Korkut e Shah Ismail, ma nessuno può negare che si siano effettivamente svolti. Alexandre Dumas diceva: «La storia serve come un chiodo sul quale attaccare i miei quadri»… In Rashomon, per esempio, vengono presentate diverse interpretazioni di una stessa cosa: la differenziazione delle interpretazioni.
È un romanzo polifonico, come lo definirebbe Mikhail Bakhtin?
Non mi ero posto l’obiettivo del polifonismo: ma più scavavo nella storia più trovavo una separazione. Non si può parlare di polifonismo per gli eroi di Omero. Si tratta invece di stratificazione psicologica, come la descrive Fëdor Dostoevskij. Per esempio, non avrei mai pensato che avesse tanto seguito il ruolo della bibliotecaria, mentre è di grande impatto la controversia tra i due cavalieri che si confrontano sulla possibilità che un uomo possa mangiare un intero montone: diviso in due parti non si può ma in quattro sì. Come nell’opera teatrale c’era questa divaricazione tra shah e poeta, nel testo c’è questa divaricazione da un punto di vista strutturale. Heidegger ha detto che tutta la vita è sogno, anche il romanzo. Direi che sono stato costretto dentro un ambito mitologico dove mi ossigenavo con l’aria di Shah Ismail. Borges parlava della letteratura come di un sogno controllato. Il sogno letterario non è come quello normale. Ci sono stati dei riflessi, è possibile che io abbia visto in Armenia l’antica capitale degli Oghuz. In altre parole, l’autore si divarica: uno continua a dormire, l’altro continua a scrivere.
La letteratura inizia dove finisce il mito?
Questo romanzo comincia dal punto in cui termina il mito e il mito termina dove comincia la scrittura. Tutte le linee prendono la loro linfa dal mito. La realizzazione del manoscritto come libro è la distruzione di canoni letterari. Le rappresentazioni vengono abbattute, Korkut non è visto come si è abituati a vederlo. Il lettore si scontra con protagonisti che hanno un altro carattere, la loro abitudine viene colpita. Tant’è che il protagonista avrebbe potuto spaventarsi e non pubblicare.