Il lettore italiano ebbe occasione di incontrare per la prima volta Oscar Peer nel 2006, quando per Casagrande venne tradotto Il ritorno, il suo romanzo più noto e celebrato datato 1978. Già in quel caso, del suo autore (filologo eminente e premio Schiller nel ’96), si potevano cogliere una ben precisa genealogia letteraria e una fisionomia non certo approssimativa, entrambe a doppio filo legate a un territorio assai circoscritto, a un paesaggio, a una comunità e, insomma, a un mondo che per continuare a esistere occorreva restasse, lì nella scrittura e nella memoria dello scrittore, assolutamente immutabile e immacolato nel suo secolare isolamento, nella sua cruda marginalità, un mondo quasi del tutto estraneo al divenire storico e dove semmai la storia degli uomini andava a coincidere con la persistenza feroce e ingovernabile della natura stessa, dei suoi ritmi e travagliati eventi.
Intanto nessun sentimento bucolico ed elegiaco attraversava quelle pagine, ma anzi vi si disegnava un universo minaccioso, allarmante, votato al sospetto e alla diffidenza. Simon – l’anziano protagonista che ritorna al paese dopo avere scontato in carcere una condanna a tre anni – sa o intuisce fin da subito, al pari di un profeta derelitto, che per la sua colpa dovrà pagare un prezzo altissimo, un prezzo che non ha alcun rapporto col codice penale e con le leggi scritte dai giuristi. Per aver colpito e ucciso un uomo in un quanto mai ambiguo e misterioso incidente di caccia, il sessantacinquenne Simon renderà conto invece al cupo, silenzioso e comune sentire di una piccola, spietata società la cui legislazione intrattiene piuttosto un rapporto con l’Antico Testamento. L’impresa ciclopica alla quale decide di sottoporsi – il taglio del basco in una zona impervia, pressoché inaccessibile della valle, tra rocce e dirupi – ha appunto la caratura di un sacrificio biblico, di una immolazione. Restano comunque insoluti il problema della colpa e della sua reale portata. Il ritorno era un romanzo popolato di ombre e di chiaroscuri, raggrumato e sospeso dentro uno spazio incerto e tuttavia mai anemico o privo di energia malignamente vitale.
Quella di Peer (nato a Lavin nel 1928 e morto a Coira nel dicembre del 2013, una ventina di opere all’attivo) – come egli stesso ha tenuto a sottolineare – non è l’Engadina gloriosa e celebre di Giovanni Segantini o di Alberto Giacometti, e nemmeno quella del turismo che un tempo si sarebbe definito elitario, composto da facoltosi villeggianti dell’alta borghesia o dell’aristocrazia europea. No, il territorio geografico, umano e sentimentale del più significativo e rilevante scrittore svizzero di lingua romancia del secolo scorso è l’Engadina Bassa, umile e laboriosa, aspra e solitaria, nella quale «si è chiusi dentro, tra boschi e pareti di roccia», dove «prati e campi confinano con i ghiaioni, la valle è stretta, giù in fondo scorre il fiume» e sempre «se ne sente il rumore monotono» e ossessivo che accompagna l’esistenza dei suoi abitanti dalla culla alla bara.
Per blocchi tematici
È l’eterna scansione del tempo e delle stagioni che ora ritroviamo nel romanzo autobiografico intitolato per l’appunto Il rumore del fiume (Edizioni Casagrande, traduzione di Marcella Palmara Pult, pp. 328, euro 25,00) che Peer diede alle stampe nel 2011, due anni prima di morire. Si tratta del racconto di un’infanzia, di una adolescenza e di una educazione alla vita che si svolge per blocchi tematici e mediante una serie di digressioni nutrite da ricordi diretti e da memorie tramandate, famigliari e collettive; e se la narrazione si ferma all’immediato secondo dopoguerra, essa arretra come scivolando fino al secondo Ottocento, quasi mito, quasi leggenda di una epopea immobile, fissata senza tema di mutamento. «L’infanzia che era ancora una promessa», annota Peer, «si perde in lontananza, in un mondo di sogno, e la vita che è venuta dopo ci pare frammentaria, mancata, piena di contraddizioni». Questo senso di spaesamento, così aperto e sanguinante come una ferita che la maturità e la vecchiaia non hanno potuto sanare e così cocente poi a causa delle disillusioni, è la conseguenza non di un seppure inevitabile espatrio da quella arcaica, primordiale compattezza, da quella forza che si potrebbe definire ottusa, laddove la complessità era risolutamente naturale e non certo culturale.
C’erano uomini forti, si potrebbe ripetere, e la forza (insieme alla tenacia, alla resistenza, ai gesti ripetuti all’infinito) bastava anche nel dolore, nella fatica, nel bisogno, nella povertà (ad esempio: «Neve come tribolazione. Non ci si liberava mai della neve»; oppure: «Coi vestiti abbiamo meno problemi. Si possono portare gli stessi per anni e anni, spesso rammendati, lisi e di nuovo rammendati finché non è più possibile portarli. È comunque incredibile quanto a lungo certi vestiti possono durare»). Lo sguardo è quello dell’uomo colto e sapiente che verrà, ma pure il piccolo Kini (Oscar veniva così chiamato in famiglia) ha occhi spalancati, attentissimi. Vede e osserva tutto, anche se a volte non capisce. Non capisce quel continuo pensare e parlare ai morti, come a volerli richiamare a sé, della nonna Berta; non capisce, ancora, perché una donna del villaggio venga additata come strega e isolata ed evitata da tutti; non capisce, poi, la ragione delle violenze fisiche e delle umiliazioni morali che certi insegnanti infliggono agli scolari; né, infine, capisce la madre – «la bontà in persona, affronterebbe la morte per me» – quando non gli «concede un solo giorno di libertà». Stenta persino a capire da vecchio, quando ritorna in quei luoghi, prima a Carolina, «solo una stazione della Ferrovia Retica» dove lavorava il padre, «dimora dei miei primi cinque anni» e, a seguire, Zernez, finalmente un vero paese, e poi Lavin. Sempre lo accompagna, in questa rivisitazione, in questo ritorno, il fluire rumoroso del fiume Inn.
Il padre legge Gotthelf
Peer è un magnifico ritrattista di uomini e di ambienti. Degli uomini coglie preferibilmente le stranezze, a volte cupe e misteriose e in altri casi grottesche, ai limiti della follia. La madre, il padre (lettore appassionato di Gotthelf, autore di sicuro centrale nella formazione del ragazzo Kini, il futuro scrittore), i quattro fratelli, gli zii e le zie, gli insegnanti e i compagni di scuola (in specie nel bellissimo capitolo dedicato alla scoperta del sesso: «La masturbazione in compagnia di solito era una cosa normale, non ci si faceva neanche caso a chi cominciava», come a dire che l’innocenza non la si perde mai perché non la si possiede nemmeno da adolescenti) e soprattutto nonno Turmasch, cacciatore (anche di frodo) e guida alpina, potenza ed energia allo stato selvaggio, potenzialmente immortale e che pure morirà alla maniera dei camminatori compulsivi. La scena della scoperta del corpo è la medesima che si presentò davanti agli occhi di coloro che trovarono il cadavere di Robert Walser: «Qualcuno l’ha trovato il giorno dopo, verso le dieci, a circa un chilometro dall’ospedale, in una radura. Era per terra accanto a una panchina, mezzo coperto di neve. Aveva fatto una sosta, sarà caduto nel momento in cui l’ha sorpreso la morte. Il suo cappello era rotolato via, ma teneva ancora in mano la stampella. Pare che il suo orologio da tasca non si fosse ancora fermato». È la vitalità perduta che tinge a lutto Il rumore del fiume. È la sua luce obliqua, in altri termini, a rendere assai diverse queste pagine autobiografiche dalla felicità tutta mediterranea dei ricordi d’infanzia di Marcel Pagnol o di Benjamin Cremieux.