«C’era una volta» è l’inizio di ogni favola che si rispetti, in un tempo lontano e indeterminato dove il realismo non è necessario e tutto può succedere, di solito in terre altrettanto remote e esotiche.
E proprio in un generico passato, un vago dopoguerra, ha luogo La stoffa dei sogni, il nuovo film di Gianfranco Cabiddu presentato al Maxxi in pre-apertura della Festa del Cinema di Roma (che avrà inizio venerdì 16). La storia è una rielaborazione di La tempesta di Shakespeare nella sua traduzione in napoletano ad opera di Eduardo De Filippo. Su un’isola che è rimasta a lungo tagliata fuori dal mondo, l’Asinara in Sardegna, naufraga una barca che portava i detenuti – dei camorristi napoletani – al carcere, e su cui era nascosta una piccola compagnia teatrale, capitanata da Oreste Campese (Sergio Rubini). I camorristi, ricercati dalle guardie carcerarie che li sanno a piede libero sull’isola, li obbligano ad accoglierli nella compagnia, e a far finta davanti al direttore del carcere (Ennio Fantastichini) che anche loro siano attori.
Nel frattempo, due delle guardie che si trovavano sulla barca naufragata vengono fatte prigioniere dall’unico «indigeno» rimasto sull’isola dopo che tutti i sardi ne erano stati cacciati per costruire il carcere, un novello Calibano (Fiorenzo Mattu), pastore che si esprime solo nella sua lingua e nessuno capisce. Il direttore, alter ego di Prospero in esilio nel testo shakespeariano, non crede alla versione dei teatranti, e per avere la prova che tra loro non si annidino i latitanti li obbliga ad allestire e recitare proprio La tempesta di Shakespeare in cinque giorni, prima che passi la prossima barca con cui la compagnia di commedianti avrebbe lasciato l’isola.
Gioco di scatole cinesi in cui ci si rifà al teatro e contemporaneamente lo si mette in scena, La stoffa dei sogni è una favola che omaggia al contempo Shakespeare e De Filippo, «maestro» del regista. Ma anche il potere affabulatorio del teatro in generale, ricreato infine dai protagonisti in un sovrapporsi di tradizioni che vanno da quella partenopea al Kabuki giapponese e le Ombre balinesi, a loro volta legate al cinema delle origini.

Quando e come è nata l’idea di «La stoffa dei sogni»?

Quando l’Asinara è tornata agibile con la creazione del parco naturale l’ho visitata, e lì ho iniziato a pensare alla trama del film, che però ha avuto una gestazione molto lunga. Da ragazzo ho lavorato per quattro anni con Eduardo De Filippo: facevo il fonico per la registrazione di La tempesta tradotta da lui in napoletano teatrale, in cui interpretava tutti i personaggi maschili e aveva chiamato solo un’altra attrice per il ruolo di Miranda, la figlia di Prospero. Il suo testo mi è rimasto impresso per tutti questi anni, inoltre ho sempre nutrito un grande amore per Shakespeare.

Perché l’Asinara? 

È un’isola che è rimasta separata dalla civiltà per centoventi anni a causa del carcere, dove sono statimandati prigionieri della prima guerra mondiale, quelli delle nostre guerre coloniali – come la figlia di Hailé Selassié – camorristi, banditi sardi eccetera. Insomma è un posto di dolore che ha attraversato la cultura del Novecento europeo, un luogo di esilio come quello in cui è recluso Prospero, che richiama anche l’esilio dell’umanità che vi si è trovata rinchiusa. Ma contemporaneamente è un luogo magnifico, quasi magico, dove gli animali vivono allo stato brado, alcuni di razze che altrove non esistono, e ci sono dei paesaggi mozzafiato.L’isola stessa è un personaggio, con la sua storia e la sua vita. E mi piace pensare che nella rotta da Tunisi a Napoli che percorrono i naufraghi nell’opera originale ad un certo punto avrebbero dovuto per forza «incrociare» la Sardegna.

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La lingua, la mescolanza di lingue, è un aspetto fondamentale della storia.

Eduardo De Filippo ha avuto la grandissima intuizione di tradurre parole scritte per essere recitate, non per essere letteratura, che non possono prescindere dall’attore e dal pubblico. Per questo nel film i camorristi iniziano a recitare bene solo quando dall’italiano aulico con cui è tradotto Shakespeare si passa al napoletano: la tragedia racconta le loro stesse vite, e loro grazie alla lingua possono esprimersi al suo interno.

Poi c’è il sardo dell’ultimo pastore rimasto sull’isola.

Antioco/Calibano alla fine, attraverso il teatro, capisce la sua condizione di uomo che è stato «colonizzato», metafora di tutta la Sardegna dove, ad esempio, si trova oltre il 60% della basi militari su territorio italiano. Parla una lingua che nessuno capisce, ma è proprio lui che usa le parole dello stesso Shakespeare quando dopo l’esperienza teatrale maledice le guardie carcerarie che «occupano» l’Asinara con una battuta di Calibano: «Quest’isola era la mia, sarò anche stato un selvaggio ma ero un re ed ora sono uno schiavo. Vi maledico nella lingua che mi avete insegnato». Ma alla fine c’è un messaggio di speranza e accettazione: da parte del direttore del carcere che lascia libera la figlia come da parte della compagnia di comici e di camorristi che sanno adattarsi alla situazione in quel grande teatro che è la vita.