Alberto Garzón ha bruciato le tappe. Classe 1985, in questa legislatura è stato il più giovane deputato al Congresso, e al momento è il più giovane designato come capolista dai partiti che saranno in lizza per le elezioni politiche di dicembre. Economista di fede marxista, militante del Partito comunista spagnolo e di Izquierda Unida dal 2003, Garzón partecipò ai movimenti indignados del 2011 ed è stato eletto deputato nella circoscrizione di Málaga (in Andalusia), sua città adottiva in elezioni, quelle del 2011, in cui IU con i suoi alleati ha ottenuto 11 deputati, con 7% dei voti.

La sua linea politica punta tutto sulla creazione di una lista popolare che unisca le liste di sinistra contrarie al bipartitismo, in primis Podemos. È convinto che sia arrivato il momento di superare la marginalità e di puntare all’agglutinamento delle forze alternative, sul modello delle candidature che hanno portato persone come Ada Colau e Manuela Carmena a diventare sindache delle principali città spagnole. In questi giorni è in Catalogna per appoggiare la lista unitaria Catalunya, sí que es pot (CSQEP) che riunisce precisamente Podemos, i rosso-verdi di ICV e la stessa IU. Elezioni caratterizzate dalla polarizzazione del discorso indipendentista.

«Siamo davanti a un cambio epocale, e stiamo discutendo di come sarà la società che sorgerà da questo cambio – spiega al manifesto – se sarà l’oligarchia a dirigerlo, con un cambiamento del modello sociale, con maggiori tagli, e del lavoro, verso una maggiore precarietà, oltre che con un adattamento giuridico-politico delle istituzioni alle necessità del capitalismo; o se invece vivremo un processo diretto dal basso, partecipativo, democratico e di recupero dei diritti sociali. Anche le elezioni catalane si collocano in questo contesto. Con una singolarità: che sono attraversate dalla questione nazionale, identitaria, territoriale. Chi condivide il modello di società costruito dall’oligarchia – Pp, Convergència (partito di Mas, ndr) e Ciutadanos – si trova molto beneficiato dall’idea di ridurre il conflitto politico a una questione territoriale. Il diritto a decidere sul modello di stato è parte della disputa, evidentemente, ma assieme ad altre questioni, come l’istruzione, la sanità o i servizi sociali. La retorica vuole ridurre tutto a indipendenza Sì o No. Però secondo noi in gioco c’è molto più».

In Catalogna però molti movimenti pro indipendenza, come la Cup, sono marcatamente di sinistra.
Un nazionalismo di sinistra si può capire. La stessa parola “nazione” proviene da un vincolo con il popolo – e “recuperare per il popolo”, la nazionalizzazione, ha la stessa radice. Nell’analisi di noi marxisti, alle condizioni materiali di vita si deve dare priorità. Esiste l’identità nazionale o culturale come esiste quella sociale. Io ho molto più in comune con un lavoratore catalano che con un imprenditore della mia città. Voterei No a una consulta sull’indipendenza andalusa, perché credo che sia possibile costruire un’entità giuridica superiore al territorio che ci permetta di convivere assieme con le altre identità e lottare assieme. Siamo molto più uniti in termini di classe sociale che separati in termini di lingua. Dal mio punto di vista, il nazionalismo non è il miglior modo di guardare le cose da sinistra.

In Catalogna si è riusciti a concretizzare una lista unitaria fra IU e Podemos. Anche se con prospettive così così: i sondaggi danno meno del 15%.
È un esempio che si può lavorare assieme, salvando le differenze, perché si è data priorità al fatto che in gioco c’è tanto, costringendoci a smettere di guardarci l’ombelico. Se si è riusciti a farlo in Catalogna, perché non si può fare nel resto dello stato? Quanto al risultato, vedremo. Qui il regime ha portato tutto sul piano identitario, costruendo una narrazione “plebiscitaria” in cui non ci riconosciamo. A dicembre la potenzialità sarà molto maggiore.

Gli indipendentisti sfidano la costituzione dal punto di vista territoriale. Non potrebbero essere gli apripista per superarla?
La costituzione del 1978 è già ai ferri corti da molto tempo. I suoi fondamenti, il contesto socio-storico, sono scomparsi. Il patto capitale-lavoro, che cercava di introdurre lo stato sociale che nel resto d’Europa è arrivato 30 anni prima, non c’è più. Ma gli attacchi che ha ricevuto sono stati soprattutto da parte dell’oligarchia: un superamento della sua impostazione giuridica da parte dell’Unione Europea, e uno svuotamento della sua impostazione sostanziale per le privatizzazioni e le politiche neoliberali. Ora non serve più a indirizzare una società che è completamente diversa. Il processo catalano è parte di questo, ma non è l’apripista perché la pista è già aperta. Il processo costituente è già in corso. La scelta non è fra un processo costituente o niente. È fra un processo costituente diretto dall’oligarchia, o uno diretto dal popolo.

La vostra idea di lista unitaria nasce con questa ambizione?
La nostra diagnosi ha portato alla conclusione che era necessaria l’unità popolare, almeno dal punto di vista elettorale. All’inizio la volontà politica non c’era da parte di molti degli attori – e molte resistenze rimangono. Non è ancora possibile sapere se ci riusciremo e in che modo. Credo però che siamo sempre più vicini perché tutti si stanno rendendo conto che la frammentazione politica in elezioni così importanti darebbe il potere di nuovo al bipartitismo e concretamente a Mariano Rajoy. Per questo la maggior parte delle persone è a favore di una lista popolare. Le resistenze vengono da parte di persone che non hanno compreso il momento storico.

Il retrocesso di Podemos nei sondaggi li ha resi più flessibili?
Anche se Podemos non avesse perso terreno, non avrebbe avuto comunque abbastanza peso per cambiare il paese. L’unità popolare era già una necessità anche con percentuali più alte di oggi. La legge elettorale ti distrugge quanto più è piccola la tua percentuale elettorale. E noi di IU siamo esperti in questo. Credo che l’importante sia una diagnosi con orizzonte più ampio: se a dicembre le sinistre di questo paese riusciranno a prendere una posizione di rottura o se definitivamente ricadremo nella marginalità.

Izquierda Unida è cambiata?
Quando entrai in IU, governava Izquierda Abierta (uno dei partiti che formano IU, e che sta minacciando di uscirne, ndr) e loro teorizzavano che IU doveva essere l’opposizione “influente”, che la sua missione storica era quella di facilitare i governi socialdemocratici. Era una IU del 5%, che le permetteva di sopravvivere in termini di apparato. Certamente era una IU che non lottava per la trasformazione sociale, era a favore di una gestione un po’ più progressista del sistema economico capitalista. Questo a me è sempre sembrato profondamente erroneo. Le organizzazioni sono conservatrici per natura, quella che Robert Michels chiamava “la legge di ferro dell’oligarchia”: ciascuna comunità sociale quando si istituzionalizza tende ad avere un controllo antidemocratico da parte di una oligarchia che controlla gli apparati. Quando un partito è al 10% e si domanda se salta o rimane fermo, c’è sempre una tendenza molto forte a non rischiare. Noi vogliamo rompere questa dinamica perché crediamo che dobbiamo costruire un quadro nuovo, e che non possiamo rimanere solo per gestire le miserie che ci lascia il sistema.

Dopo quello che è successo alla Grecia e ai rifugiati, l’Europa è finita?
Una cosa è l’europeismo teorico: siamo persone con valori internazionalisti e che crediamo che tutti siamo uguali e non ci sono persone illegali. Poi però c’è la realtà: la Ue in nessun momento è stata un progetto di fraternità fra popoli. Erano patti fra potenze economiche che per le conseguenze della II guerra mondiale cercavano un aggiustamento istituzionale che evitasse un confronto bellico futuro e il contagio delle idee comuniste. Così venne costruita una Ue comandata da pochi paesi e da interessi economici. Quello che dobbiamo fare oggi è ricostruire la Ue tenendo presente che questa Europa è morta, ha firmato l’inizio della fine. Con la Grecia si è comportata come ricattatrice, una banda di mafiosi non solidali che invece di pensare ai diritti umani vendono all’asta le persone, che si ripartisce i rifugiati con quote. Bisogna rifarla, ma l’opzione non è l’autarchia, il rifugio in un nuovo stato-nazione. Oltretutto sarebbe impossibile, nello stadio di globalizzazione finanziaria ed economica in cui viviamo. Ci vogliono alleanze regionali che costruiscano nuovi legami di solidarietà e di fraternità. Come fu l’Alba latino-americano, permettendo che attorno a un progetto politico vero con principi e valori e di interazione e solidarietà, si possano costruire nuovi spazi di integrazione. Il sud d’Europa avrebbe la capacità e la potenzialità di costruire questo legame. Con un orizzonte chiaro, la volontà politica, oggi assente, bisognerà costruirla.

Lei dice spesso che uscire dall’euro è come essere su un aereo: è molto più facile scendere prima del decollo che durante il volo. È arrivata l’ora di lanciarsi dall’aereo?
Io credo che il dibattito sull’Unione Europea non è un dibattito esclusivamente monetario. È un dibattito sulla struttura produttiva, sul perché ci sono paesi che si sono specializzati in strutture di alto valore aggiunto, come Germania o Francia, mentre paesi come la Spagna sono stati deindustrializzati trasformandoli in mano d’opera a poco prezzo per il resto dell’Unione. Uscire dall’euro non farebbe sì che d’improvviso cambiasse questa situazione. Dovremmo finanziare un’attività economica profondamente deficitaria nella bilancia commerciale. Il dibattito sull’euro arricchisce, ma credo che il dibattito vero sia sulla capacità produttiva, sull’uguaglianza e sulla divisione interazione del lavoro.

Si sente più vicino a Varoufakis o a Tsipras?
Per l’analisi economica, certamente a Varoufakis. Oltretutto si è dimostrato che chi aveva più interesse che la Grecia uscisse dall’euro era il ministro delle finanze tedesco. Perché aveva passato sei anni trasferendo le perdite possibili e potenziali dell’uscita dell’euro dalle mani private a quelle pubbliche. Se fosse uscita sei anni fa, le perdite le avrebbero avute le banche. Se esce ora, il suo debito lo ricevono entità pubbliche che hanno falsamente “riscattato” la Grecia. D’altra parte, uscendo dall’euro ci sarebbe il dramma di come ricomporre un’economia basata soprattutto sull’import, con un aggiustamento dei salari di quasi il 40%, in educazione, in sanità e pensioni. È più facile negoziare con la Ue quando sei dentro e hai più capacità di ricatto che quando sei fuori. Sono contento per la vittoria di Syriza, anche se un paese con il peso economico della Grecia avrà molte difficoltà a cambiare le politiche della Ue da solo. Noi da dicembre lavoreremo perché la Spagna la possa aiutare a cambiare l’Europa.

Parlando delle elezioni, la vostra proposta più importante è quella del lavoro garantito.
. Fornire lavoro deve essere quindi un obbligo per lo stato a tutti quelli che vogliono lavorare, come accade con l’istruzione o la sanità. Nella nostra proposta basterebbero 9,4 miliardi di euro per togliere un milione di disoccupati dalla strada. È una quantità importante, ma che confrontata con quello che abbiamo speso per esempio per riscattare il sistema finanziario è ridicola. La strategia del lavoro garantito in termini macroeconomici serve per stimolare la domanda interna, per recuperare l’economia attraverso la garanzia di un’entrata a chi stia lavorando. È una misura complementare a quella del reddito di cittadinanza, che è quella di Podemos per esempio. Io sono molto più favorevole al lavoro garantito perché è molto più realista e ha più vantaggi economici. Ovviamente se una persona non può lavorare bisogna garantirgli un altro tipo di prestazione.

Ma praticamente, come funzionerebbe?
Si tratta di mettere in piedi delle borse di lavoro attraverso una strategia di pianificazione, ma non come diceva Kaynes scavando un buco per poi tapparlo. Invece si deve diagnosticare quello di cui abbiamo bisogno per cambiare il modello produttivo. La costruzione è caduta lasciando milioni di persone fuori dal mercato del lavoro e allo stesso tempo i centri storici sono deteriorati? Allora facciamo un programma di riabilitazione dei centri storici che serva per stimolare il turismo, ma allo stesso tempo per dare entrate a queste persone e che stimoli la domanda interna delle piccole e medie imprese di ogni città. Altre linee strategiche possono essere: le energie rinnovabili, la riforestazione dei boschi, la cura delle persone… Linee che marcherebbe lo stato con programmi concreti. Per il momento le fasce salariali sarebbero due: tra 900 e mille euro e tra mille a 1200, secondo le qualificazioni. Sono quantità esigue ma per cominciare possono funzionare. Il programma sarebbe pubblico, ma la gestione la potrebbero fare entità o ong.