Da parecchi anni Teresa Margolles (Culiacan, Sinaloa 1963, vive e lavora a Città del Messico) colleziona momenti della quotidianità strettamente connessi con la morte: fotografa, registra suoni. Lo avverte come un dovere nei confronti di tutte le vittime della violenza, soprattutto delle migliaia di donne assassinate la cui morte attraversa in silenzio la storia del Messico, più che altrove. Come quella della sua amica Karla, una prostituta transessuale di 65 anni che collaborava al progetto che l’artista avrebbe dovuto realizzare sui transessuali in occasione della prossima edizione di Manifesta a Zurigo «Karla è stata assassinata il 22 dicembre scorso – spiega l’artista – È stata colpita alla testa con un blocco di cemento. Il cadavere è stato ritrovato dopo una settimana in una casa abbandonata, a pochissimi metri dalla sua abitazione. La polizia non ha cercato il colpevole perché lei era transessuale, e l’assassino gira libero per il centro storico di Ciudad Juárez. Ora che Karla è stata uccisa il lavoro ha preso un altro aspetto, da opera d’arte è diventato cronaca sociale»

DSC_0150 - Teresa Margolles, Ferrara 16-4-2016 (fotoManuela De Leonardis)
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In occasione della mostra Silencio vivo. Artiste dall’America Latina che dà il titolo alla XVI Biennale Donna, curata da Lola G. Bonora e Silvia Cirelli e organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’Udi al Pac – Padiglione d’arte contemporanea di Ferrara (fino al 12 giugno) l’artista messicana ha realizzato l’installazione site-specific Pesquisas che presenta una parete con le fotografie con cui le famiglie si rivolgono alla polizia per cercare di avere notizie sulle figlie scomparse. «Il lavoro non si riferisce solo alla realtà di Ciudad Juárez, da dove provengono le immagini, è un esempio di quello che succede anche a Sinaloa e in tutto il resto del Messico, dove c’è un disprezzo enorme nei confronti delle donne. Quei cartelli sono stati attaccati per così tanto tempo che hanno acquistato un aspetto stropicciato. Questo rappresenta un’ulteriore sparizione. Il tempo ha usurato le immagini e la gente che ci ha disegnato sopra».

Trattare la morte per Teresa Margolles vuol dire denunciare e non dimenticare, un’operazione che passa attraverso l’intangibilità dei suoni, dell’aria rarefatta. In Sonidos de la muerte (Sounds of Death) del 2008 ha registrato i suoni quotidiani dei luoghi in cui sono avvenuti gli assassini (si sente il cinguettio degli uccellini, il rumore di un’automobile che passa): «Ho ripreso l’indifferenza che accompagna queste morti, ma anche il cambiamento stesso della città. Certe volte è trascorso così tanto tempo dalla scomparsa al ritrovamento del corpo che lo spazio è mutato, e lì dove c’era un deserto è stato costruito un centro commerciale». In Aire (2003) il pubblico respira l’aria della morte diffusa da due climatizzatori, l’artista ha portato a Ferrara la tela essiccata che ha raccolto il cadavere delle persone assassinate, con resti vari inclusi terra, sangue, pelle e altri residui umani e animali. «Qui la tela è stata reidratata con l’acqua del posto. Morire fa parte della vita, ma è un’altra cosa essere assassinati. Attraverso i diffusori respiriamo l’essenza della morte violenta. Lo spazio vuoto della sala serve proprio per riflettere e rappresenta la violenza con cui le persone sono state assassinate».

I tantissimi volti di donne sparite a Ciudad Juárez, città di confine tra Messico e Stati Uniti, con cui hai creato il site specific «Pesquisas» (inchiesta), sono una sorta di monumento di sguardi muti che denunciano violenza e impotenza…
Pesquisas è il riassunto di un lavoro che porto avanti da 14 anni a Ciudad Juárez, dove sono andata per trovare delle risposte. Perché lì è così frequente l’uccisione di donne? Se nessuno indaga, quelle morti finiscono nell’indifferenza, questo vale per tutto il paese non solo per quella città che, comunque, diventa una sorta di spazio di riflessione. È come l’epicentro del dolore. Un paese che non si prende cura delle proprie donne, ragazze, bambine, che non le protegge cercando una soluzione reale è privo di basi.

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Il suo lavoro artistico affonda le radici nell’esperienza personale della pratica negli obitori di Città del Messico. In particolare, nel 1990 è tra i fondatori del gruppo Semefo-Servicio Médico Forense…
Nasco artista, solo in un secondo momento ho deciso di studiare medicina e prendere la specializzazione come medico legale. Una scelta che ho fatto per poter investigare legalmente sul corpo morto. All’interno dell’obitorio incontro il corpo sociale. L’obitorio è come un termometro, riflette quello che sta succedendo al di fuori. Lì, attraverso i corpi decapitati e torturati, ho potuto riscontrare quanto siano aumentate negli anni le morti violente. Quando, nel 2009, ho rappresentato il Messico alla Biennale di Venezia, si parlava di seimila casi di persone assassinate, ora sono ventimila. Un numero destinato ad aumentare ancora. Purtroppo, questo fenomeno si è trasformato in qualcosa di così comune che non lo troviamo più solo nell’obitorio, ma anche per strada e si vedono ragazzini fotografare i cadaveri con il cellulare. La morte non è più un tabù, siamo assuefatti. Basta accendere la tv o navigare su internet per vederla in diretta.

Nella costruzione della sua «opera sociale» l’utilizzo di materiali come l’acqua usata per pulire i cadaveri negli obitori («Aire», 2003), oppure il tessuto macchiato del sangue di donne assassinate («L’impossibilità di rappresentare la tragedia», 2010) non è solo metaforico, ma anche reale. Affrontare il tema della morte è anche una forma di esorcizzazione?
Io non esisto. Sono solo un mezzo per denunciare, portare alla luce quello che sta succedendo. Non voglio mostrare la mia visione, solo la realtà dei fatti. Utilizzare materiali che sono stati a contatto con il corpo, che hanno una stretta relazione con la tragedia, è utile per assumere una visione periferica di tutto quello che sta succedendo. Non voglio mostrare i corpi dilaniati, ma far capire la tragedia e far parlare di tutti quegli assassinii, soprattutto del disprezzo che c’è nei confronti delle donne.

Da dove nasce questo disprezzo per le donne?
Ho riscontrato che anche in Spagna c’è disprezzo per le donne, ma sicuramente in paesi come il Messico e il Guatemala è qualcosa di assoluto. Penso che sia così perché è la società stessa a permetterlo. Non c’è giustizia. Gli assassini sono impuniti. A Ciudad Juárez le bambine crescono già sapendo che un giorno, forse, saranno ritrovate nella spazzatura, perché sono spazzatura. Hanno sotto gli occhi, quotidianamente, i cartelli delle loro concittadine che sono state uccise e che vengono imbrattati dai ragazzini che disegnano i baffi o li scarabocchiano. Il governo non vuole quei manifesti perché ritengono che sporcano la città, sono elementi di disturbo. Sono passati così tanti anni che quei volti femminili sono diventati immagini iconiche, ma la gente non ci fa più caso.

Esiste una strategia per tenere a bada la morbosità che potrebbero suscitare nello spettatore quelle immagini, come può avvenire nell’estetica barocca delle fotografie di Witkin in cui i cadaveri sono messi in posa o nella celebre serie «The Morgue» di Serrano?
Conosco il lavoro di questi artisti, ma certamente il loro uso del corpo è completamente diverso dal mio. Ho visto Witkin mentre fotografava nell’obitorio a Città del Messico. Il suo non era un lavoro sul cadavere come corpo sociale, ma come un medico che tocca il cadavere, elemento che va in putrefazione, per studiarlo. Witkin lo componeva e fotografava come fosse una natura morta. Per me, invece, rappresenta il dolore della famiglia. Il mio è un tentativo di descrivere la sensazione di vuoto lasciata da quelle morti. La morte per assassinio distrugge una famiglia, una comunità, una società, un paese. Il corpo massacrato a cui guarda Witkin è più quello della tradizione cristiano-cattolica, dove si convive con l’immagine del Cristo crocifisso. Nelle nostre case, nelle camere da letto, c’è sempre un crocifisso dove si vedono le ferite aperte: protegge la famiglia. Così come nelle chiese messicane, dove non manca mai la statua del figlio di Dio morto. Anche l’ostia è il corpo e il sangue di Cristo e, durante la messa, si mangia e si beve.

Nell’affrontare questi temi come riesce a non lasciarsi sopraffare dalla pesantezza del dolore e della morte?
Forse bevendo un prosecco! (sorride mentre dà un sorso al bicchiere con il prosecco, ndr). Vivendo, ascoltando, conoscendo la gente e facendomi nuovi amici. Non posso certo dire che mi piaccia fare il mio lavoro: io sto in mezzo. Solo una parete separa il cadavere, magari decapitato, che è nell’obitorio, dalla famiglia che attende – nella stanza attigua – di poterlo vedere. Se vedesse il corpo così com’è, la famiglia sarebbe doppiamente distrutta. È necessario che venga ricomposto. Credo che quella parete sia anche la linea di confine dell’arte che rende la tragedia un luogo di riflessione, una poetizzazione della morte stessa.