Una sentenza storica quella di martedì emessa, a carico del ministero della Difesa, dalla Corte d’appello di Roma in cui viene decretata la «inequivocabile certezza» del nesso causale tra esposizione a uranio impoverito e insorgenza di malattie tumorali. Per l’Osservatorio Militare – che segue da un decennio l’argomento – nel comunicato diramato subito sulla sentenza ottenuta dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, la sentenza è «un macigno giuridico che si abbatte sul ministero della Difesa. Che rischia di schiacciare definitivamente ogni tentativo di confondere, nascondere la determinazione di chi ha voluto far luce e dare giustizia ai 317 militari morti e gli oltre 3600 malati causati da una esposizione senza mezzi di protezione in zone bombardate da uranio impoverito».

La sentenza della Corte d’appello di Roma riconosce ai familiari del militare deceduto per cancro, contratto in seguito al servizio ricoperto nell’ambito della missione internazionale in Kosovo tra il 2002 e il 2003, il risarcimento di un milione di euro ai quali si aggiungono danni morali e danni per il ritardato pagamento. Ad oggi sono oltre 30 le sentenze a carico del ministero della Difesa, di cui la maggior parte ormai definitive, che danno ragione a militari italiani ammalatisi o familiari di militari deceduti, seguite dall’avvocato Tartaglia. Sentenze che segnano la storia del cosiddetto caso «Sindrome dei Balcani» scoppiato nel 2001, con l’emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Due Paesi che erano stati bombardati dalla Nato, nel 1995 e nel 1999, con proiettili all’uranio impoverito (DU), come emerse dalle mappe dei siti bombardati, rese pubbliche dalla Nato in diverse fasi temporali tra il 2001 e il 2003. Dalle mappe risulta, ad esempio, che in Kosovo nel 1999 la zona posta sotto protezione del contingente italiano fu una delle più bombardate: 50 siti per un totale di 17.237 proiettili.

È un rapporto già del novembre 2000 dall’Unep (United Nations Enviroment Programme) a seguito della prima missione post-conflitto realizzata in Kosovo, tra il 16 aprile e il 28 maggio 1999 risultano 113 i siti colpiti, per un totale di circa 31.000 proiettili con punte di 1.000 proiettili in un giorno su di un unico sito. L’area più colpita risulta quella occidentale, al confine con l’Albania, dove tra l’altro venne subito stanziato gran parte del contingente italiano KFOR.

In merito al territorio della Serbia, i dati forniti dalla Nato riferiscono che sono state circa 2.500 le bombe al DU lanciate nel 1999, tutte nel sud del Paese e concentrate su quattro siti: Pljackovica presso Vranje, Borovac vicino a Medvedje, Bratoselce vicino alla città di Bujanovac e Reljan, situato a pochi chilometri da Preševo.

Da allora è una battaglia: tra chi nega l’esistenza di una correlazione tra esposizione al DU e malattia, e chi sostiene il contrario con numeri di morti e malati alla mano e sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa. Si sono susseguite diverse commissioni di indagine, di cui tre inchieste parlamentari tra l’autunno del 2005 e gennaio 2013, mentre lo scorso 22 aprile il parere favorevole della commissione Affari Sociali della Camera ha dato l’avvio all’iter per l’istituzione di una nuova (la quarta) Commissione parlamentare d’inchiesta che dovrebbe partire con i lavori nel secondo semestre del 2015.

Per Domenico Leggiero, responsabile del Comparto Difesa dell’Osservatorio Militare, con questa sentenza si mette la parola fine anche alle numerose commissioni d’inchiesta. Leggiero sottolinea un altro aspetto importante: «Una sentenza del genere potrebbe aprire il caso uranio ad aspetti penali di gravissima entità, d’altronde la sentenza è chiara: inequivocabile certezza anche sul fatto che i vertici già sapevano, ancor prima dell’invio del personale che un’esposizione in zone contaminate da proiettili all’uranio impoverito comportava il probabile rischio di ammalarsi e magari morire di cancro».

Ma se l’uso dell’uranio impoverito è stato alla fine criminale per i soldati italiani della Nato, una sorta di fuoco amico, che cosa sappiamo dei danni ambientali e umani provocati contro i civili in Serbia e Kosovo, senza dimenticare gli «usi precedenti in Iraq, Somali, Afghanistan e ripetutamente nella Striscia di Gaza? È proprio questa la domanda che l’opinione pubblica e i vertici militari atlantici non si sono mai posti.
Eppure da molti anni il caso-italiano «uranio impoverito» viene seguito nella sua evoluzione in tutti i Balcani, da media e istituzioni sanitarie nella convinzione che l’aumento dell’incidenza delle malattie tumorali degli ultimi anni in Bosnia-Erzegovina, Serbia e Kosovo sia legato alla «Sindrome dei Balcani». Legame che non è ancora la «inequivocbile certezza» della sentenza italiana di questi giorni. C’è poi il fatto che, nonostante l’allarme a Belgrado facesse titolare nel 2009 all’autorevole quotidiano Politika «Kosmet je mala Hiroshima” (Il Kosovo è una piccola Hiroshima), un vero rapporto epidemiologico completo dei siti bombardati non è mi stato realizzato, ma solo inchieste sanitarie parziali. Come il dossier relative alle morti di alti ufficiali dell’esercito serbo che aveano indagato sul terreno il livello delle radiazioni delle aree bombardatecampo; e come la ricerca dell’internista-cardiologo Nebojša Srbljak nell’area del nord del Kosovo che parla di «vera e propria epidemia»: «Nel territorio di Kosovska Mitrovica rispetto a prima dei bombardamenti l’aumento delle affezioni di natura maligna tra i civili raggiunge punte del 200%».

Del resto la questione relativa ai civili resta inevasa anche in Italia in relazione al personale civile delle Ong (e ai giornalisti) presenti, prima, durante e dopo, sulle operazioni di guerra. Nella relazione finale dell’ultima Commissione di indagine presso il Senato, precocemente chiusa nel febbraio 2008 c’era questa raccomandazione. Rimasta lettera morta.

* Osservatorio Balcani e Caucaso