«Ferguson o Iraq?». Dopo che il 9 agosto il 18enne afroamericano Michael Brown era caduto sotto i colpi di un agente di polizia bianco a Ferguson, il sito scozzese Mashable, 4 milioni di contatti su Twitter quest’anno, aveva accostato una serie di fotografie che erano state scattate nella cittadina del Missouri nelle ore successive alla morte del ragazzo, con quelle arrivate negli ultimi anni da Baghdad. Difficile cogliere la differenza, se non perché nel primo caso ad essere controllati e identificati in mezzo alla strada erano quasi esclusivamente dei neri. Simili le divise mimetiche, gli elmetti utilizzati dai reparti speciali delle forze dell’ordine o della Guardia nazionale, i fucili d’assalto imbracciati dagli agenti, i blindati su cui erano state montate delle piccole mitragliatrici che pattugliavano la zona. Nessuno avrebbe potuto dire con certezza che questa banlieue di Saint Louis si trovasse non lontano dalla linea Mason-Dixon, piuttosto che in Medioriente.

Ora che un Grand Jury composto prevalentemente da giudici bianchi ha derubricato a «legittima difesa» l’omicidio di Brown, stabilendo che l’agente, bianco, Darren Wilson non debba essere processato per l’accaduto, quel drammatico paragone con le guerre che gli Stati Uniti combattono in giro per il mondo, torna ad echeggiare nel dibattito pubblico del paese. Perché, insieme al perdurare dei pregiudizi razziali e della segregazione sociale degli afroamericani, ciò che ha reso possibile la tragedia di Ferguson, è la modalità stessa in cui viene gestito “l’ordine pubblico” in America.

Iniziata già alla fine degli anni Sessanta, a seguito delle rivolte urbane che scossero il paese, la progressiva militarizzazione dei corpi di polizia locali è diventata una delle caratteristiche della realtà sociale americana. Prima la «war on drugs» lanciata già negli anni Ottanta e quindi l’ulteriore escalation militarista seguita ai riot di Los Angeles del 1992, hanno reso molti uffici degli sceriffi di contea del tutto simili a piccole guarnigioni delle forze armate. Come evidenziato, tra gli altri, da uno studio realizzato dalla Scuola di studi sulla polizia dell’università del Kentucky Orientale, centinaia di dipartimenti delle forze dell’ordine si sono dotati nel corso degli ultimi decenni di veri e propri corpi paramilitari, in grado di scegliere quali armi e quale tipo di addestramento far seguire ai propri agenti che si sono così spesso trasformati, come sottolineato dalla rivista Covert Action, in «una sorta di combattenti ninja».

Non solo, l’industria degli armamenti ha puntato molto su questo tipo di tendenza, riciclando per così dire sul mercato interno, armi e mezzi non più utilizzabili sui teatri di guerra internazionali. Recentemente il New York Times ha rivelato che solo dal 2006 ad oggi qualcosa come 432 veicoli blindati, 533 aerei ed elicotteri, oltre a 90mila armi automatiche sono passati direttamente dalle mani dei militari a quelle dei poliziotti.

In questo clima, sono il sospetto e la paura reciproca che regnano spesso per la strade dei ghetti neri o dei quartieri dell’immigrazione, con le tragiche conclusioni che sono sotto gli occhi di tutti. Per Joseph McNamara, ricercatore della Stanford University, «quando nella tua zona gira della gente in divisa militare, con armi e veicoli militari, è più facile credere che si tratti di un esercito di occupazione che della polizia locale».