Era da un anno che il governo catalano aspettava questo momento: la celebrazione della Diada esattamente 300 anni dopo la grande sconfitta dell’11 settembre 1714.

I numeri tondi giocano un certo fascino e il 2014 doveva essere l’anno in cui i catalani si sarebbero ripresi il futuro. Le celebrazioni del Tricentenario vanno avanti da mesi, promosse da governo catalano ed entità locali – persino gli atti pubblici dell’amministrazione catalana ne riportano il logo. Le ong indipendentiste, Associazione nazionale catalana e Òmnium Cultural, ci hanno puntato molto.

È stato anche composto un inno speciale per 300 violoncelli, eseguito mercoledì sera davanti al nuovo museo del Born dedicato alla Barcellona del 1714, sotto una bandiera di 17,14 metri al vento. Le cose, però, non sono andate proprio come molti degli entusiasti partecipanti alla manifestazione milionaria dell’anno scorso si aspettavano.

Il Parlamento catalano, spronato dal governo in minoranza di Artur Mas, nazionalista di destra di Convergència i Unió (CiU), ha compiuto passi inediti nella storia della Spagna. Il 2013 si era chiuso con il patto sul referendum fra CiU, gli indipendentisti (teoricamente di sinistra) di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), il partito rosso-verde catalano Icv e il movimento della Cup (partito assemblearista di sinistra indipendentista). Si erano accordati per una data, il 9 novembre 2014, e due domande da sottoporre al popolo catalano. La prima, in sintesi: la Catalogna deve essere uno stato? La seconda: deve essere indipendente? In questo modo CiU e Erc sono riusciti a imbarcare non solo la Cup, ma anche i federalisti di Icv, ammiccando anche a molti socialisti, benché formalmente il Psc (il partito dei socialisti catalani) si è schierato subito contro il referendum, assieme ai popolari e al partito Cittadini.

A gennaio il parlament ha approvato con ampia maggioranza una richiesta alle Cortes di Madrid di delegare, secondo l’articolo 150 della Costituzione, la competenza sull’indizione di un referendum alla Generalitat catalana. Una richiesta appoggiata a Madrid solo dai nazionalisti catalani e dai partiti della Izquierda Plural. A maggio, il Tribunale Costituzionale, accettando il ricorso del governo contro la dichiarazione di sovranità (meramente di principio) approvata dal parlamento catalano nel 2013, diceva però che in sé la richiesta del «diritto a decidere» catalano non è incostituzionale, sempre che venga fatta nel rispetto della Costituzione. Una sfumatura che il Partito popolare ha ignorato, fermo nella posizione che qualsiasi richiesta di referendum è incostituzionale.

Il governatore Artur Mas, da parte sua, alla consultazione ha legato il suo secondo debole mandato (con un’esigua maggioranza, deve appoggiarsi a Esquerra, che in cambio chiede la celebrazione del referendum) ed è costretto allo scontro frontale con il governo di Madrid, che non ha alcuna intenzione di dialogare. Una manovra perfetta per entrambi i governi, per evitare di parlare delle dolorose conseguenze della crisi e dei loro volonterosi tagli al welfare.

La guerra nazionalista è continuata tutta l’estate. Da un lato il governo autonomo di Barcellona preparava le urne per il 9 novembre e una legge catalana per celebrare «consultazioni» (non vincolanti). Dall’altro gli esplodevano bombe giudiziarie sotto gli occhi, con evidente soddisfazione del governo nazionale. La più grossa coinvolge il «padre» fondatore della Catalogna postfranchista: l’ex presidente (e padrino politico dell’attuale) Jordi Pujol confessava davanti all’evidenza di aver evaso il fisco per milioni di euro per decenni (senza contare che tutti i suoi sette figli e la moglie sono implicati in vari casi di corruzione). Colpire Pujol, per 30 anni capo del governo catalano, secondo tutti gli osservatori, è colpire al cuore Artur Mas, il cui governo si è infatti prontamente smarcato, privandolo Pujol di tutti i privilegi di ex presidente.

L’obiettivo della manifestazione di ieri era mostrare i muscoli: dopo la via catalana del 2013 (una catena umana di 400 chilometri, dai Pirenei all’Ebro), quest’anno è stata disegnata una gigantesca V (che sta per «votare», «vittoria» e «volontà») fra gli 11 chilometri di Gran Via e Avenida Diagonal di Barcellona, al cui vertice, piazza di Glories, sono state disposte 947 simboliche urne, una per ciascuno dei 947 comuni catalani. La V, nel pomeriggio di ieri, si è trasformata in una enorme senyera, la bandiera catalana a strisce gialle e rosse. Tra la campagna martellante dei mezzi di comunicazione pubblici catalani, e quella degli organizzatori e del governo, il clima si è fatto ormai incandescente. Cartelli che dicono «Ora è l’ora», «Votare è democrazia», il sempreverde «Catalunia is not Spain» e gli occhi puntati sul referendum scozzese che fra pochi giorni segnerà un importante precedente. Il milione e mezzo di manifestanti di ieri (dicono gli organizzatori) crede davvero che il 9 novembre sorgerà il sol dell’avvenire.

Ma non è chiaro cosa accadrà davvero. Venerdì prossimo il parlament approverà la legge per le consultazioni, e il giorno stesso della pubblicazione nella gazzetta ufficiale catalana, Mas convocherà le urne per il 9 novembre. Il governo conservatore del premier Mariano Rajoy è due mesi che dice (senza neppure aver letto il testo della legge) che ricorrerà su tutto, legge e atto di convocazione. Il tono di Mas si è nel frattempo moderato, anche per i molti maldipancia interni, ma quello di Oriol Junqueras, lo storico dell’economia che guida Esquerra, si è estremizzato. Esquerra è anche disposta a entrare nel governo (manovra fin qui sempre evitata per non sporcarsi le mani coi bilanci lacrime e sangue di CiU) appena approvata la legge e se Mas non perderà colpi sul referendum. Se non vuole rimangiarsi la promessa di non infrangere in nessun caso la legge, l’unica strada che rimane a Mas è di sciogliere il parlament e convocare le elezioni (definite «plebiscitarie»), sempre per il 9 novembre. E da cui uscirà certamente sconfitto da Erc, a meno che non si faccia una lista unica indipendentista in nome del diritto a decidere.

Ma il Tribunale costituzionale prima o poi dovrà pronunciarsi sulla legge catalana. Difficilmente potrà dire che è incostituzionale chiedere ai cittadini, o a una frazione di essi, di esprimersi su una questione. Se decidesse in questo senso sarebbe un grave problema per la sempre più barcollante democrazia costituzionale del 1978. Ma se invece decidesse che il referendum si può fare? Cambierebbe davvero molto celebrare questo referendum fra qualche mese, magari con equilibri parlamentari diversi a Madrid?