Ci sono testi classici che elogiano la pazzia e altri che esaltano le gioie della vecchiaia. Non sorprende dunque questa lode della guerra fredda di Sergio Romano, tanto più che la sua controstoria non loda né la guerra né il freddo bensì le capacità dell’ordine bipolare di trovare i rimedi per evitare il peggio. L’equilibrio del terrore nascondeva molti mali. Eppure garantì un lungo periodo di stabilità al centro grazie all’auto-restrizione, agli accordi, ai compromessi per non sconvolgere la pace in Europa. Il tabù dell’intoccabilità delle frontiere veniva prima anche dell’autodeterminazione dei popoli.

Quello che manca al sistema globale costituitosi nel 1990, in una conclamata asimmetria, è proprio la diplomazia. Gli Stati Uniti, governo e opinione pubblica, si sono convinti – erroneamente secondo Romano, che spiega il collasso del blocco sovietico e della stessa Urss con le riforme di Gorbaciov – di aver vinto la guerra fredda e di essere più che mai la nazione «indispensabile». Una vittoria morale non è una vittoria politica. Ma la Russia, a differenza dell’Urss, è stata trattata come un vinto. Solo così si spiega, per esempio, l’ultimatum per il Kosovo alla Serbia, il principale alleato di Mosca nello spazio ex-jugoslavo. Le ambizioni di Putin, dopo la remissività persino sospetta di Eltsin, sono diventate inaccettabili perché solo l’America pretende di avere il «diritto» di commettere gli abusi permessi alle grandi potenze.

A sostegno della sua ricostruzione, nel libro In lode della guerra fredda (Longanesi, pp. 132, euro 16), Romano non esibisce fonti scritte o note bibliografiche. È un vantaggio per chi scrive e per chi legge. Tutto è affidato alla concatenazione dei fatti e al prestigio dell’autore. Al netto di qualche imprecisione (sulla Somalia, sulla Conferenza di Madrid per il Medio Oriente nella pausa vagamente distensiva dopo la guerra del 1990-91), il filo logico è ineccepibile. La sinteticità con cui sono descritti i vari passaggi, fra crisi e intese, semplifica l’accessibilità e godibilità della narrazione. Nella sua analisi, Romano tiene sempre conto delle ragioni delle varie parti rifuggendo dall’espediente di ritenere che l’ultimo atto sia quello determinante. Da Suez all’Ungheria, dalla Palestina all’Indocina, dai missili russi a Cuba all’Afghanistan di Breznev e soprattutto nell’iter accidentato delle trattative per il controllo degli armamenti (il capolavoro della diplomazia della guerra fredda per neutralizzare il Dottor Stranamore), il discorso fluisce senza forzature, mostrando come i singoli episodi comportino ragioni e torti in ordine sparso.

Una controstoria della guerra fredda è anche una controstoria del dopo-guerra fredda. I teatri in cui si dipana il sistema che doveva essere multipolare ma che si è rivelato unipolare (e imperfetto secondo Huntington) sono l’Europa orientale, i Balcani, il Medio Oriente nella dimensione «grande» impostagli da George W. Bush e, per finire, l’Africa.
Il preteso «anti-americanismo» di Sergio Romano è tutt’al più un punto d’arrivo e non di partenza. La politica delle varie amministrazioni è studiata in sé. Una «rivelazione» è che fu più attenta a non ferire la Russia assicurando un minimo di bilanciamento al vertice la presidenza del vecchio Bush (anche nel modo di gestire la guerra contro Saddam per il Kuwait) che non l’amministrazione democratica di Clinton, durata dal 1992 al 2000. Gli errori (o i crimini?) di Bush junior colmarono la misura. L’attentato dell’11 settembre fu una tragedia e fornì il pretesto per passare all’azione. Dopo di allora, le buone intenzioni di Obama non hanno resistito alla prova del confronto con il complesso militare-industriale già denunciato da Eisenhower al termine dei suoi due mandati nel lontano 1960.

La ritrovata inimicizia con Mosca impedisce all’Occidente di utilizzare la Russia in funzione stabilizzante, soprattutto con riguardo all’offensiva dell’islamismo radicale. L’importanza – non necessariamente la minaccia – dell’islam per la Russia è praticamente ignorata o trascurata. La Cecenia scade a un esercizio di forza da parte dell’«impero». Tutti gli impegni assunti al momento della riunificazione della Germania e dello scioglimento del Patto di Varsavia sono stati dimenticati o più semplicemente disattesi.

L’Europa ha perso tutte le occasioni per districarsi dal gioco a somma zero dell’allargamento verso est della Nato che ha annullato i vantaggi di quello stesso processo finché era stato condotto con il soft power dell’Unione. È così che non c’è nessun paragone possibile fra la reazione della Casa Bianca alla Via Pal di Budapest nel 1956 e quella alla Piazza Maidan di Kiev nel 2013.
Le conclusioni del libro sono pessimiste e, per certi aspetti, illusorie. Sergio Romano – pensando verosimilmente alla cultura dominante nell’Occidente post-illuminista più che al credo dei singoli – scrive che «siamo troppo laici» per aspettarci che le pur generose perorazioni di un papa abbiano la meglio sulla politica e sugli interessi degli stati. Ma evidentemente non siamo abbastanza laici da riconoscere, dopo tanti esperimenti falliti, che uno stato europeo non c’è e non esisterà così presto. Si indugia in qualcosa che sta fra la retorica e l’utopia mentre la politica incalza.

Se ha un senso tutto il ragionamento di Romano, l’approdo dell’Europa – o dei maggiori paesi europei – dovrebbe essere una forma d’autonomia che una volta si sarebbe definita neutralità o neutralismo. Ma è decisamente poco verosimile che, in queste condizioni di potere, l’America, dopo aver ingabbiato gli europei in una politica fatta di tensioni e di guerre con i vicini a Est (la Russia) e a Sud (il mondo arabo), conceda senza colpo ferire all’Europa di esimersi dalle obbligazioni che sono richieste a chi è parte del blocco occidentale. Il disegno di Obama è se mai il trattato di libero scambio fra le due sponde dell’Atlantico per rendere il rapporto ancora più stringente. A ben vedere, Obama ha dimostrato di avere più senso politico con Cuba e l’Iran, due «nemici», che con le esigenze degli alleati.