Uno dei temi più battuti dalla riflessione estetica contemporanea è come spiegare la «modernità», ovvero la trasformazione dell’arte occidentale che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento abbraccia l’idea di esperienza estetica quale incessante ricerca soggettiva della novità. Spesso si ritiene la modernità questione di infrazioni e ribellioni alle regole della tradizione artistica, tuttavia non mancano voci fuori al coro. «Se accettiamo che la cosa che ha maggiormente caratterizzato le arti visive del XX secolo è un insieme di riduzioni e di esclusioni sistematiche, di rifiuti sempre più decisi di partecipare a una più ampia comunicazione alla vita del mondo, allora abbiamo firmato la nostra condanna».
Il princiopio del rugby
Nel suo saggio Una squisita indifferenza Perché l’arte moderna è moderna, uscito nel 1990 e ripubblicato ora (Johan & Levi, pp. 218, euro 28,00, traduzione di Maria Pace Ottieri e Jacques Reynaud), Kirk Varnedoe prende spunto dal mito fondativo del rugby per presentare l’innovazione modernista quale gesto di radicale quanto estemporanea riscrittura delle regole che però non rompe con la tradizione bensì la aggiorna senza vere fratture o negazioni. «Non è stata un’astrusa convergenza di forze sociali, o un rivolgimento catastrofico dell’asse culturale occidentale, o un trauma causato da influenze esterne a dar vita all’arte moderna: le innovazioni più importanti hanno avuto origine principalmente da risorse interne alle nostre stesse tradizioni, e grazie ad azioni individuali su una serie di opzioni ancora disponibili». Il salto qualitativo del modernismo deriverebbe quindi da un mutato approccio degli artisti che grazie a una «libera» – cioè senza scopi definiti – ricombinazione degli elementi presenti schiudono nuovi e imprevisti orizzonti. La «squisita indifferenza» è appunto quella di chi nella contingenza sa cogliere inediti abbinamenti di forme e significati al di là di ogni condizionamento esterno. Ciò comporta un cambio di mentalità, per cui la tradizione (l’insieme dato delle convenzioni) non è più vista come realtà eterna e immutabile, ma come variabile e instabile campo di possibilità sul quale e con il quale agire. Sullo sfondo Varnedoe colloca un modello «darwiniano» di evoluzione, in cui il cambiamento non è un fenomeno fortuito bensì intrinseco all’ordine della natura e dipendente dalla decisione conscia della singola persona «di cercare nuovi significati per vecchie forme e affrontare vecchi compiti con nuovi strumenti, di accettare lo strano come utile e riconsiderare il noto come pieno di potenzialità». L’abilità dell’artista infatti è anche quella di intuire risorse in precedenza trascurate in elementi extra-artistici e vernacolari.
Varnedoe è stato docente, saggista e curatore museale; conseguito il dottorato alla Stanford University con una tesi su Rodin, ha insegnato presso la stessa Stanford e poi alla Columbia; quindi è stato curatore del dipartimento di pittura e scultura al Museum of Modern Art di New York dal 1988 al 2001, per tornare infine all’insegnamento a Princeton. Il libro è frutto di una ricerca avviata nel 1984 grazie a una borsa di studio della MacArthur Foundation e nella selezione degli artisti trattati riflette in maniera palese gli studi e le attività museali svolte dall’autore prima e durante la stesura. Anzi, sembra quasi finalizzato a provvedere una giustificazione teorica alle scelte curatoriali delle grandi e controverse mostre al MoMA – Primitivism in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern, 1984-’85, e High & Low: Modern Art and Popular Culture, 1990-’91) a cui Varnedoe ha lavorato.
Nonostante il tono garbato, il saggio è implicitamente polemico e, dopo aver allestito una succinta rassegna di quelle che l’autore considera le due principali tendenze della critica per denunciarne le pecche, Varnedoe introduce i propri argomenti come soluzione «pragmatica» a inconciliabili e sterili dicotomie. Da una parte, attacca la ricerca di astratte verità assolute (alludendo velatamente a Clement Greenberg) e, dall’altra, censura le interpretazioni culturali e storiciste (di T. J. Clark, ad esempio), colpevoli di ridurre opera e artista a prodotti meccanici e inconsapevoli di un processo eteronomo, con cause esterne ed estranee.
Tra gli esempi proposti l’autore esamina il modo in cui la prospettiva, peculiare convenzione pittorica, ha smesso di essere un dogma e in particolare contesta le teorie che vogliono la crisi del sistema prospettico conseguenza dell’invenzione della fotografia e della diffusione delle incisioni giapponesi nella Francia del tardo Ottocento. Così la pittura impressionista e postimpressionista non derivano supinamente dalla fotografia, ma al contrario l’anticipano fornendo suggestioni ai fotografi. Allo stesso modo, l’arte giapponese è un «boomerang culturale»: ciò che gli artisti francesi recepiscono dall’estremo oriente è qualcosa a sua volta già contaminato dall’impatto della prospettiva occidentale. Questo gioco di scambi reciproci ritorna anche nel capitolo dedicato al primitivismo, per cui nemmeno l’influenza dell’arte negra su Picasso si può ricondurre a un nesso causale diretto, da «palla da biliardo». Sulla scia degli studi post-coloniali, il primitivismo serve all’autore per analizzare il rapporto del modernismo con la cultura extraeuropea e più in generale con l’«altro», superando anche qui le due opposte letture dominanti del razionalismo illuminista, che cerca le strutture universali dei codici linguistici, e del culturalismo romantico, che considera l’arte una pratica sociale specifica e locale, mediante l’idea che la scoperta dell’«altro» permette agli artisti occidentali di pensare l’arte come categoria elastica e ogni tradizione artistica come repertorio aperto (di qui la strategia del prelievo e della ricontestualizzazione).
Fotografia e avanguardie
L’esposizione di Varnedoe è scorrevole, mai noiosa, ha uno stile divulgativo che rifugge da eccessi di tecnicismo accademico. Tuttavia, nonostante l’abbondanza di interessanti informazioni storiche (soprattutto sul rapporto tra fotografia e pittura), l’impianto teorico vacilla e il ragionamento tende ad avvitarsi su se stesso: l’arte moderna è moderna perché è innovativa e l’innovazione è un principio autosufficiente. Defenestrata la necessità storica, Varnedoe sembra recuperare una necessità naturale; mentre la sperimentazione fine a se stessa e indipendente dalla realtà dell’ordine sociale diventa principio per lo sviluppo culturale della società. Presi singolarmente, i capitoli sono apprezzabili contributi alla storia delle avanguardie, ma lo sforzo di cucirli assieme in un’unica narrazione coerente ne esalta i difetti anziché il valore. Del resto, malgrado l’importanza che attribuisce alle scelte individuali, Varnedoe curiosamente non sfiora neanche la questione dell’intento autoriale; né tantomeno chiarisce perché nella proliferazione di nuove forme soltanto alcune vengano accettate. Eppure, come dice lui stesso, per innovare bisogna essere in due. In definitiva il libro non mantiene la sua promessa, non rivela davvero la ragione per cui l’arte moderna è moderna. Forse però rivela come il suo autore vedeva l’arte: con una squisita (e postmoderna) indifferenza, per cui è lecito prendere liberamente «ciò che ci piace e ignorare quello che non ci piace», perché così avvengono molti fruttuosi cambiamenti.