Nel presente onnivoro, bulimico, che ci incalza e ci livella, nella costrittiva piccolezza di orizzonti che sola può rimanere quando tutto è travolto da consumismo coatto, tempo televisivo, mutazione antropologica dell’uomo-automobile – ovvero nel nostro presente asfittico e «condominiale» – la soluzione narrativa adottata da Sebastiano Vassalli è stata, largamente, quella del romanzo storico. Di soluzione occorre parlare in quanto strumento e scioglimento del possibile letterario in cui l’autore ha creduto, visto che il presente gli è parso a lungo «non raccontabile», ma al tempo stesso occorre parlare anche di itinerario, di cammino. La meta raggiunta, dichiarata dall’autore nella sua maniera schietta e adesso per noi testamentaria, era «raccontare l’Italia». Narrandone, tuttavia, non fatti oggidiani ma episodi del passato scelti in un universo minore, taciuto o in ombra, per il loro valore di esemplarità, e ricostruiti con dedizione, liberati dalle menzogne storiche che li avevano avviluppati e distorti. I suoi sono personaggi marginali e offesi, violati fino allo stordimento, com’è, nella Chimera, Antonia, tanto bella da ispirare un pittore di edicole e poi bruciata sul rogo nel 1610: «i capelli che svanivano nella luce e la bocca che si apriva in un grido senza suono». O come Mattio Lovat che la pellagra, «la malattia della fame», porta a evirarsi, a crocifiggersi e poi a morire all’alba dell’800 in uno dei primi ospedali psichiatrici d’Europa, quello di San Servolo a Venezia, in Marco e Mattio. O sono personaggi risibili e agghiaccianti come Il Cigno, un deputato piccolo e rotondo quanto «uno gnomo», assolto per insufficienza di prove eppure vero mandante del primo delitto di mafia, l’assassinio Notarbartolo commesso nel 1893 per coprire finanziamenti illeciti a Crispi.
I suoi personaggi derivano per lo più da persone storiche (o edifici, come la casa protagonista di Cuore di pietra) e dunque della storia ricostruiscono contesti e ragioni, accettabili, folli o violente che siano. La pervicace arretratezza della Chiesa nel Seicento Lombardo, l’indipendenza di Venezia sacrificata da Napoleone, la repressione dei Fasci siciliani mossa ad arte da sinistri provocatori, gli scandali delle Banche, la mafia che onesti e malavitosi negavano con spregio: «è una cosa che si tocca?», «che si mangia? Che si incontra per strada? È forse fatta come l’acqua o l’aria?».
Ma molti altri personaggi popolano l’universo narrativo di uno scrittore prolifico come Vassalli.
Che questa – la via del romanzo storico, o del «romanzo-verità» – fosse la strada da percorrere ha costituito per decenni la sua certezza. Quasi fosse più conoscibile, più tangibile e concreto, ciò che, lontano dal presente, e però anche dai sensi e dalla loro verità esperienziale, poteva essere ricostruito con l’indagine e con l’aiuto di documenti, con lo slancio immaginativo, con la prodigalità del narratore che libera il suo precipuo gusto del racconto fluido e avvolgente, che crede in un tempo letterario diverso dal tempo comune. Un tempo altro, ove ogni incontro è possibile, anche quello tra un personaggio e il suo scrittore di secoli più giovane. Questo è, propriamente, ciò che avviene nel romanzo di Vassalli, postumo per poche settimane, che Rizzoli ha appena dato alle stampe: Io, Partenope (pp. 286, euro 19,00). Nel tempo della letteratura «tutto, o quasi tutto, è possibile», lì, può aver luogo «l’eterno presente delle vicende umane». E ne dobbiamo dedurre che per Vassalli la storia non dice dello ieri ma pienamente dell’oggi, o almeno non soltanto dello ieri. Dovremmo pensare a un presente in allegoria? Troppo facile e riduttivo. O, invece, davvero a un «presente eterno»? L’affermazione di Vassalli è assolutizzante e sbalestrante, ma non riducibile, crediamo, alla lectio facilior della storia che ripete sempre se stessa. «Eterno presente» è qualcosa di più e di diverso, chiede un salto dell’intelletto, una sorta di fiducia. Il suo modo di indagare la storia, poi, è pacato e limpido: risponde in tutto, coerentemente, allo scrittore riflessivo, appartato, sobrio quale è stato, nemico dei soprusi, capace di usare le distanze e di scorciarle, e «raccontare il Paese» per interposti tempi, diremmo. Questa idea di letteratura, questa poetica, sa bene cos’è un artificio, come si deve far affiorare e dipanare un romanzo, su cosa premere per farne un oggetto non solo narrativo ma etico. Che parli al lettore con chiarezza. Così racconta Partenope allo scrittore che a dispetto dei secoli la incontra nella Roma del Bernini, davanti all’estasi di Santa Teresa. Partenope, nata al secolo Giulia Di Marco, poverissima tanto da essere venduta bambina, è stata madre di una neonata esposta alla ruota dell’Annunziata, a Napoli, e poi una suora laica, una terziaria francescana dedita alle opere di carità nella strada. Ha partecipato a un incontro di preghiera con un santo eremita, Domenico, imparando che per accogliere Dio bisogna «essere dei sacchi vuoti». Ha gestito due Case di Preghiera, insegnando ai «figli» e alle «figlie» come si possa pregare col corpo. Ha visto crescere la sua fama di santa, soprannominata Partenope come la Sirena che protegge Napoli. Perseguitata come eretica, ha patito gli interrogatori del Sant’Offizio, «le macchine della menzogna» che trasformano chi è torturato in «un pezzo di carne senza nome» disposto ad ammettere qualsiasi colpa.
Dopo l’abiura, ha conosciuto Gian Lorenzo Bernini, la sua capacità di «dare anima alle pietre» e i suoi tormenti per una donna spregiudicata.
Come già prima altri personaggi di Vassalli – pensiamo almeno a quelli contemporanei e non storici dei racconti La morte di Marx o alla voce di Timodemo, segretario di Virgilio, in Un infinito numero, qui il testo coniuga l’io, oltre a esibirlo nel titolo. Parla in prima persona, Suor Partenope, ma in una lingua non seicentesca, in quell’«eterno presente» che evidentemente investe anche sintassi e lessico. Ripercorre tutta la sua vita con schiettezza e insieme con pudore, parla con misura dell’estasi, della preghiera che si fa con l’anima e col corpo, in comunione mistica con Dio. Descrive con trasporto l’amatissima Napoli, «città femmina» – e la montagna di fuoco che le è accanto, la folla perenne, gli sfaticati, i guappi e il passeggio dei nobili – e con gusto pittoresco, con vivacità macchiettistica, coglie la città dei papi, che invece «non è né maschio né femmina», il suo secentesco «puttanesimo».
La narrazione risulta affabile, esplicativa, garbatamente didascalica. Lontanissimi i testi sperimentali di Vassalli, le volute e il furore di Narcisso – «un’euforica bisboccia verbale, sconnessa e avvampante», a dirla con Giorgio Manganelli –, lontanissime la parodia della forma trattato, le ritrazioni d’accento e le aferesi che ghigliottinavano le parole in Tempo di màssacro.
L’ultima tappa del grande racconto dedicato all’Italia, Io, Partenope, sconta, forse, un’eccessiva semplificazione di dettato e di articolazione, e addirittura una prevedibilità (invero molto romanzesca) nella chiusa, ma ha il merito indubbio di innescare una riflessione sulla Chiesa del Seicento (e dell’«eterno presente»?), sul difficile ruolo della donna nel gregge dei fedeli, sulla subordinazione delle discendenti di Eva cui non è dato «inventare dottrine», sulla mondanità dei preti che parlano di Inferno e Paradiso «senza esserci mai stati», interessati solo, come sono, al mondo «nostro».
È un romanzo severo, questo ultimo di Vassalli, raccontato per voce di una donna singolarmente moderna, sì da considerare il corpo non una cosa immonda, ma «la parte migliore di noi, che ci porta verso Dio e ci permette di conoscerlo». Alla modernità di quella donna risponde, nel Congedo d’autore, il Vassalli nostro contemporaneo: «la religione dei papi, che mirava al dominio del mondo, nel presente, non sembra poter avere un futuro: perché la politica ormai si fa altrove».