Qualcosa si muove a sinistra in Europa, anzi qualcuno. Non penso solo a Jeremy Corbyn, che ha vinto le primarie del partito laburista britannico con parole d’ordine come accogliere, prendersi cura, garantire una vita dignitosa. E nemmeno solo all’avventura di Tsipras o alla straordinaria mobilitazione referendaria greca, che ha restituito ai cittadini la parola sulle politiche di austerità, fino alla vittoria elettorale di domenica. Oggi penso soprattutto alle decine di migliaia di cittadine e cittadini europei che sono in movimento: con il convoglio austriaco che ha sfidato le leggi sull’immigrazione per trasportare i profughi siriani da Budapest a Vienna; nelle stazioni dei paesi del Nord per dire «Welcome» ai nuovi arrivati; a piedi scalzi in Italia l’11 settembre per chiedere accoglienza e canali umanitari; con ogni mezzo, ogni giorno, per portare aiuti ed assistenza a chi fugge da guerre e miseria.

Queste donne e questi uomini sono in movimento perché hanno capito che la storia passa da qui, che scegliere da che parte stare nella partita tra chi erige muri e chi vuole ponti per le migliaia di persone che senza sosta cercano un approdo in Europa è già politica. Che i diritti o sono per tutte e tutti, o non sono.

Se allora in Italia ci chiediamo «C’è vita a sinistra?», raccogliendo l’invito di Norma Rangeri, viene da rispondere che c’è, eccome, se solo ci intendiamo su cos’è sinistra, e su cos’è vita. Intanto, guardando a sinistra vediamo praterie. Non si tratta di lande desolate, bensì di territori brulicanti di vita, perché attraversati dal lavoro quotidiano della società civile migliore: quella dei volontari del Baobab che a Roma tengono aperto da soli, nell’indifferenza delle istituzioni, il più grande centro di accoglienza per richiedenti asilo della capitale; quella che in tutte le regioni del Sud Italia lotta contro mafie e caporalato, ogni giorno, non solo quando in quelle campagne muore una donna pugliese e l’incubo del lavoro sfruttato si palesa agli occhi di tutti; o quella che il Ferragosto lo trascorre nel Cie di Ponte Galeria per parlare con 66 nigeriane trattenute ingiustamente; e ancora quella che respinge gli attacchi all’autodeterminazione delle donne, e combatte contro la violenza di genere.

C’è insomma un terreno sconfinato di battaglie per i diritti civili e i diritti sociali che da tempo le forze politiche non sembrano in grado di intercettare in pieno. Cosa manca è evidente a chiunque. Manca un soggetto politico che volga autenticamente lo sguardo fuori dal recinto dei rapporti tra sigle di partito e classi dirigenti. Che, come hanno suggerito molti in questa discussione ospitata dal manifesto, si lasci alle spalle vecchi rancori e rinunci a rendite di posizione, per guardare al nuovo e all’opportunità che già esiste. Che dia realmente spazio alle generazioni più giovani, e rompa il circolo di un potere tutto maschile.

Eppure non basta ancora. Si dice che la sinistra non abbia una visione. Io credo, invece, che debba solo unire i puntini, tenere insieme temi cruciali e non più eludibili che devono comporre la trama della politica dei prossimi decenni. Ne menziono solo tre.

Diritto d’asilo e libertà di movimento. Di fronte a un fenomeno epocale della portata che abbiamo sotto gli occhi le risposte sia di Roma sia di Bruxelles appaiono cosa modesta, lungi dall’essere all’altezza delle domande del presente. Non è accettabile la proposta di dispositivi di selezione dei flussi che distinguano tra profughi di serie A e di serie B; non è tollerabile nemmeno una politica che, mentre fa timide aperture sul versante dell’accoglienza dei rifugiati, rigetti i migranti “economici” oltre la linea dell’umano, come vite moleste, espellibili, sacrificabili. Sulle politiche delle frontiere, dell’accoglienza e dell’integrazione si gioca il futuro dell’Italia e dell’Europa.

Welfare e redistribuzione della ricchezza. L’Italia non è un paese povero, è un paese di povertà crescenti prodotte dalle diseguaglianze sociali. Per dare una misura: pochi giorni fa l’Unhcr ha lanciato un appello ai milionari italiani, calcolando che se appena l’1% di essi contribuisse con 15mila euro il ricavato sarebbe sufficiente a garantire assistenza a 22mila famiglie di profughi siriani. Che lo stato sociale non sia più sostenibile è diventato un mantra, ma è una bugia. Svelare questa bugia e promuovere politiche vigorose di inclusione sociale e di lotta alla povertà è un compito non più eludibile.

Diritti delle donne e Lgbt, lotta contro sessismo e omofobia. Su questo terreno si sta giocando forse la più grande partita per un’idea diversa di paese, capace di dare piena cittadinanza a tutte e tutti, e a tutti i modi di essere e di amare. L’hanno capito gli avversari, che attaccano frontalmente e sempre più rumorosamente ogni iniziativa che contenga le parole “genere”, “affettività”, “diritti”. Ma l’abbiamo capito noi, noi che stiamo (spesso troppo tiepidamente) dalla parte giusta?

Se sembra scontato ricordare alla sinistra che questi temi devono essere al centro della sua azione politica, meno ovvio è rimarcare che questa battaglie non possono andare disgiunte. Quando le politiche di welfare “per le famiglie” e quelle di accoglienza per migranti e rifugiati vengono giocate le une contro le altre si arretra pericolosamente sul terreno dei diritti. Quando per attaccare le politiche europee di Angela Merkel, o le riforme costituzionali della ministra Boschi, o anche il pessimo comportamento della reporter ungherese che fa lo sgambetto ai profughi, si sfodera un intero armamentario di stereotipi sessisti, da qualche parte si sta fallendo. Quando si parla di lavoro, di occupazione femminile o di politiche di conciliazione, dimenticandosi delle donne migranti che svolgono lavoro di cura, si sta perdendo il quadro di fondo.

Concordo con Barbara Bonomi Romagnoli quando scrive che non c’è vita a sinistra se ci si limita a fantasticare di alleanze e coalizioni, se si ripetono copioni scontati e noiosi, se si riproduce un assetto da club per soli uomini, tenendo fuori le pratiche politiche delle donne e oscurando l’eredità delle elaborazioni femministe. Il pensiero delle donne – l’ha sottolineato opportunamente Bia Sarasini – ha oggi moltissimo da insegnare. Ripartire dalla relazione tra sessi e generi è una necessità. Ma dobbiamo dire con chiarezza che qui non si tratta di disegnare uno spazietto al femminile. Si tratta di arare il terreno in cui possa radicarsi un pensiero dell’umano capace di fare da guida a una politica nuova.

In gioco c’è nientemeno che la possibilità di una nuova antropologia, capace di demolire una volta per tutte la costruzione neo-liberale dell’individuo indipendente ed autosufficiente, mettendo a tema la relazione come elemento costituivo della libertà, la dipendenza come caratteristica dell’umano, la vulnerabilità e la perdita come esperienza dell’essere corpo. Aspirare a «un mondo nel quale la vulnerabilità fisica sia protetta senza tuttavia essere annientata, e la distanza tra queste due possibilità venga costantemente percorsa»: è la via d’uscita dalla violenza del nostro tempo indicata dalla filosofa Judith Butler.