Era la sala riservata ai trionfi: sotto il simbolo nelle nuvole del cielo azzurro sfilavano esultanti il doge Giancarlo Galan e la sindaca Giustina Destro, l’eminenza grigia Marino Zorzato e il ciellino Leonardo Padrin. Erano i tempi dei consensi plebiscitari: 767 mila voti al debutto di Forza Italia, 696 mila alle regionali 2000, 677 mila alle europee 2004, 779 mila alle politiche 2006. Era l’epoca del «nuovo pentapartito veneto» incarnato dal «Nord Est sono io» che celebrava nozze in villa, sfornando project financing a beneficio delle solite imprese di riferimento.
Mercoledì mattina, invece, nella sede di Viale dell’Industria Silvio Berlusconi – stretto fra il coordinatore veneto Marco Marin e il professor Renato Brunetta – ha certificato il tramonto della parabola forzista. Qualche lampo di «Forza Silvio» dal predellino. La vecchia metafora delle tasse. Un’imbarazzante nostalgia per palazzo Chigi. E la bolsa sfida a Renzi, nella speranza che faccia la stessa fine di D’Alema. Insomma, anche Berlusconi ha già metabolizzato il 4-6 per cento di Forza Italia in Veneto sull’onda di tutti i recenti risultati delle urne.

È Luca Zaia il vero leader post-democristiano. Spetta a lui guidare il centrodestra alle regionali, forte del consenso personalizzato perfino a dispetto delle “strambate” di Salvini o delle incertezze dei colonnelli leghisti. Zaia rappresenta il Veneto serenissimo e campanilista, fedele anche senza religiosità e ribelle con gli stranieri, la comunità che lavora spesso in nero e non sopporta «negri, islamici e terroni». Insomma, Zaia è l’evoluzione elegante di Umberto Bossi e l’erede naturale di Giancarlo Gentilini. A meno di 50 anni, già ministro e governatore in carica, resta il miglior ’pierre’ di Legaland, con i berluscones ridotti a meri gregari.

Fino all’ultimo Alessandra Moretti proverà a credere nel miracolo del sorpasso, nonostante collezioni gaffe nei convegni che contano e sia un bel rospo da ingoiare per tutte le altre primedonne del Pd veneto. Gli ultimi sondaggi confermano lo scenario di inizio campagna elettorale. Per di più danno il grillino Jacopo Berti davanti a Flavio Tosi, sindaco di Verona che ha lasciato la Lega per allearsi con Ncd, ciellini di Mauro e ciò che resta dell’Udc. Si candida anche Alessio Morosin di Indipendenza Veneta, mentre Laura Coletti Di Lucia con «L’Altro Veneto. Ora Possiamo!» cerca di raccogliere i consensi rossoverdi.

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Ben oltre l’esito della sfida politica di domenica, nel Veneto 2015 gira a vuoto l’eterna mitologia della “locomotiva” come l’identità dorotea elevata a modello. Sette anni di crisi strutturale hanno devastato capannoni, laboratori, “parchi” più o meno tecno e addirittura start up incubate con i soldi pubblici.

Alla ripresa credono davvero in pochi. Gufano, per primi, i bollettini aggiornati da Unioncamere di Fernando Zilio: dal 2008 i disoccupati sono 474 mila; bruciati 100 mila posti di lavoro; oltre l’8 per cento del pil regionale evaporato sull’altare della recessione senza fine. E i dati di Veneto Lavoro dello scorso febbraio lasciano pochi margini alle interpretazioni. La piccola e media impresa si estingue: le aziende attive sono appena 13.831 (erano oltre 17 mila due anni fa). L’unico dato che cresce e non poco, alla faccia delle “svolte buone”, è la sfiducia. Gli imprenditori che prevedono un ulteriore calo del volume di affari ha raggiunto quota 26 per cento (era il 16 nel 2013), come registra Veneto Congiuntura. Il quadro si incornicia con la relazione di Banca d’Italia del novembre 2014 che segnala «debole sviluppo dell’attività produttiva, perdurante clima di incertezza, investimenti industriali limitati». Insieme all’unico job act in corso, cioè «il processo di sostituzione delle forme contrattuali a tempo indeterminato con quelle temporanee che è proseguito intensificandosi».

Capitalismo reale e piccole grandi depressioni hanno azzerato i fiabeschi distretti produttivi. Smontati i mobilifici, la manifattura, la meccanica di precisione, è finita in rosso perfino la green economy. Sintomatico il flop del Distretto Solare nel padovano con più di qualche fallimento eccellente nonostante gli incentivi della legge Bersani.

Ancor più sconfortante l’istantanea della finanza: Antonveneta ormai travolta da Mps; Popolare di Vicenza letteralmente costretta a fondersi con Veneto Banca; EstCapital Sgr commissariata dal governo; broker e promotori sull’orlo del baratro spalancato dal “ciclo del mattone”.
Così i pochi utili si macinano con l’export, anche se pesa l’embargo con la Russia. Restano in piedi i cantieri delle Grandi Opere, con le imprese di riferimento che si rifanno l’immagine dopo gli scandali Mose ed Expo. Come la “nuova” Mantovani Spa passata dalle mani di Piergiorgio Baita all’ex questore Carmine Damiano. O la vicentina Maltauro in amministrazione straordinaria dopo l’intervento dell’Anticorruzione. E le sigle di Legacoop che si stemperano nell’Alleanza con Agci e Confcoop non solo per ragioni di mercato.

Appalti & politica: terreno sempre minato. Lo sa bene Marco Milioni di Vicenzapiù, cronista attento e documentato. A fine maggio ha provato a parlarne pubblicamente con il suo libro Strade Morte. Peccato che la disponibilità dell’audiorium di Altivole (Vicenza) sia stata improvvisamente posticipata a dopo le elezioni dal Comune, che ha seguito il consiglio della prefettura. «Devo pensare che le circostanze descritte nel volumetto a partire dall’affaire Mose e Pedemontana siano oggetto di censura perché scomode soprattutto a pochi giorni dalle regionali?» chiede Milioni, dopo aver depositato un esposto al Viminale e all’Ordine dei giornalisti.

Non è certo l’unico tabù. L’altro argomento di cui nessuno vuole parlare è la criminalità organizzata. L’aggettivo resta ossimòrico non solo per la politica. Ma il veneto mafioso esiste, eccome. Basta sfogliare le relazioni semestrali che la Dia consegna al parlamento, tradurre le operazioni anomale segnalate dall’Ufficio informazioni finanziarie della Banca d’Italia, scandagliare le proprietà immobiliari o registrare gli improvvisi cambi nelle partecipazioni delle società. Così si comprende che la fase esplorativa dei clan è finita da un pezzo: i sodalizi mafiosi, per dirla con le parole della Dia, si «stabilizzano».

L’ultima spia si è accesa il 30 aprile con il sequestro tra Padova e Venezia di 21 immobili riconducibili ai Casalesi. Attività tutt’altro che impossibili da monitorare, come dimostra Gianni Belloni dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia. Ha messo insieme i dati più sensibili: dagli affari della camorra a Eraclea (edilizia e calcio) e a Caorle, dove vengono minacciati i consiglieri comunali, fino al girotondo negli assetti proprietari degli alberghi termali di Abano.

Soldi “sporchi” a Padova, dove a fine gennaio la Dia ha sequestrato l’ingente patrimonio di Francesco Manzo. E a Verona e Vicenza con le aziende edili incistate dalle n’drine calabresi. Ha fatto più rumore il “caso” che ha coinvolto la giunta comunale veronese: dalle intercettazioni dei membri della famiglia Giardino che esultavano per la vittoria elettorale alla propaggine dell’indagine sulla rete di relazioni del boss Nicolino Grande Aracri.  Ma anche negli ultimi comizi si parlerà solo di profughi e sicurezza. Come se il Veneto fosse ancora la Baviera d’Italia.