Mentre Alberto Barbera, direttore della Mostra, seduto al tavolo insieme al presidente della Biennale, Paolo Baratta, nella sala dal sapore retrò del Grand Hotel romano snocciolava il programma della Mostra 71, in rete già volavano tweet di commenti. Del resto su tanti titoli, ed è lo stesso Barbera a dirlo, molto era stato detto nei giorni passati: dagli italiani in gara, ovvero Il giovane favoloso di Mario Martone, Anime nere di Francesco Munzi, Hungry Hearts di Saverio Costanzo, al Pasolini di Abel Ferrara o al Benoit Jacquot di 3 coeurs con Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve e Charlotte Gainsbourg. Lo stesso si sapeva dei film «mancanti», alcuni attesi (sperati) come Inherent Vice di Paul Thomas Anderson e Gone Girl-L’amore bugiardo di David Fincher. Eppure, stando al gioco social tutto interno (per carità) degli addetti ai lavori che imperversa intorno ai festival (tipo bookmakers sul sesso del nascituro reale), la domanda – perché non ci sono? – era obbligata. Questione di marketing ha risposto Barbera, la data di uscita di Anderson – febbraio 2015 – avrà dissuaso la Warner dalla trasferta (sempre carissima) veneziana. Lo stesso vale per Fincher – che però esce prima, anche se, l’Europa appare un po’ off limits da anni per le produzioni Usa – accade pure per il festival di Cannes. Dipende dai costi, dalle strategie, e soprattutto la relazione tra marketing e festival negli anni è cambiata. Il primo non ha bisogno dei secondi, anzi vale il contrario, cioè è il marketing a «servire» al festival.
Se sono mutati i rapporti di forza però dovrebbero cambiare anche i festival, in parte è accaduto se si pensa che i «grandi» (Venezia inclusa) tendono sempre più a puntare su opere prime o indipendenti nel passato indirizzati a altre tipologie festivaliere – nel concorso c’è Sivas di Kaan Mudeci, giovane regista turco su cui girano voci entusiaste (peccato non trovare il nuovo Christian Petzold, Phoenix, o Mia Hansen Love con Eden). Che poi Venezia scommetta sull’«arte» ci sta visto che è già nel suo dna originario, e il segnale che arriva dal Leone d’oro alla carriera a due artisti come Frederick Wiseman, che col suo lavoro di invenzione/narrazione del cinema di realtà è riferimento per generazioni di cineasti, e a Thelma Schoonmaker complice preziosa nei ritmi e movimenti del cinema scorsesiano, ci si augura sia anche una dichiarazione progettuale.
C’è da essere felici per il ritorno di Franco Maresco (Orizzonti) con Belluscone, una storia siciliana a cui il regista palermitano lavora da anni, che è riuscito a finire dopo uno spettacolo teatrale – in inverno dedicato a Franco Scaldati – e il magnifico e dolente Io sono Tony Scott (2010).

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Nei documentari sul cinema aspettiamo Ron Mann che ci racconta Altman, e in gara per la prima volta troviamo Shinjia Tsukamoto (Fires on the plain), il ragazzo cyborg del cinema giapponese che non ha perso mai, film dopo film, la voglia di mettersi in gioco.
Imperdibile è già il Pasolini di Abel Ferrara con William Dafoe, tra i film che più si attendono della stagione. Fuori concorso la bella sorpresa di Joe Dante,Buryng the Ex, e di Ulrich Seidl che entra nelle cantine austriache con Im Keller. Sempre nel Fuori concorso, La trattativa di Sabina Guzzanti che tocca il delicato tema dei rapporti stato-mafia, il ritorno di Ann Hui, cineasta di punta del nuovo cinema di Taiwan degli anni ’80, con The Golden Era, l’habitué James Franco che continua il suo lavoro di riletture letterarie in The Sound and the Fury, e Manoel De Oliveira che sfidando il suoi cent’anni è riuscito a finire un altro film, O velho do restelo, in cui troviamo la sua icona Luis Miguel Cintra. E ancora Gabriele Salvatores che racconta in Italy in a dayuna giornata di vita degli italiani.
Tornando al concorso, ecco il nuovo film di Ramin Bahrani 99 Homes sul sistema del debito che fa perdere la casa a una famiglia, star Andrew Garfield. Tales di Rakhshan Bani Etemad cineasta, documentarista, considerata la «signora del cinema» iraniano. E il nuovo Andrei Kochalovsky (pare molto forte), The Postman’s White Night.
Venezia ritrova, a proposito di Iran, un altro regista scomparso da qualche anno (e molto nelle corde barberiane), Mohsen Makhmalbaf che torna dietro alla macchina da presa presa con The President (Orizzonti). Ancora negli Orizzonti, quattro cineasti di punta – e tre generazioni diverse – protagonisti della scena indipendente americana. Michael Almereyda con la rilettura del shakespeariano Cymbeline, e i fratelli Josh e Ben Safdie (Heaven Knows What) provocatori con radicale umorismo. Ami Canaan Mann, scoperta con Le paludi della morte, e il suo Your Right Mind.