Si avvia alla dirittura finale la Biennale Teatro 2016, che è anche il 44° festival del teatro a Venezia. Questa edizione è la quinta diretta dal catalano Alex Rigola, regista che si appresta ad andare a dirigere a Madrid uno dei più ricchi teatri di Spagna. Il suo lavoro in laguna ha suscitato in Italia qualche discussione: forse perché troppo lungo, ma forse anche per l’orizzonte troppo circoscritto ad alcuni artisti, la cui presenza ha voluto ribadire qui per diversi anni. E che non in tutti i casi sono riusciti ad affermare l’importanza della loro reiterazione. Oltre a questo, non ha giovato la dilatazione e la collocazione temporale tra luglio e agosto (periodo in cui Venezia non offre il proprio clima migliore), mentre un numero di spettacoli che raggiunge a stento la decina, ansima ovviamente a tenere in piedi una manifestazione che ne dura più di 20.

E le presenze son parse talvolta disparate, legate da un filo difficile da individuare per un pubblico che deve trovare le sue motivazioni per muoversi a suon di vaporetto. Del resto, mentre aumenta in Italia la deriva delle istituzioni teatrali (con quelle «nazionali» in testa, e le altre commissariate a raffica), dalla Biennale uno si aspetta, forse ingenuamente, autorevolezza e scoperte di valore.

Artisti ce ne sono stati moltissimi, ma per lo più per parlare di sé, e condurre laboratori-lampo, nella maggior parte, di cui mostrare alla fine fuggevolmente i risultati. Grande successo di partecipanti e iscritti, giovani attori felici di fare una «esperienza», come è d’altra parte nei fini statutari della Biennale College istituita dal presidente dell’ente veneziano Paolo Baratta. Ma (con poche eccezioni) di scarsa rilevanza per il pubblico, che pure in un «festival» teatrale dovrebbe avere i suoi diritti. Pazienza. Certo è che in questi giorni centrali, è finita che uno di questi open doors (una volta si chiamavano più umilmente «dimostrazioni di lavoro») ha avuto più richiamo e successo dello spettacolo che pure sulla carta avrebbe dovuto segnare una tappa fondamentale nella rassegna.

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Il saggio più divertente e intelligente è stato sicuramente quello dei Rimini Protokoll, il geniale gruppo tedesco che da anni testimonia un modo di fare teatro di grande successo popolare, ma di assoluta diversità linguistica rispetto alle forme correnti. Non usa attori ma «esperti», ovvero elementi che nella rappresentazione di una realtà o di un problema, ne sia siano testimoni a tal punto da coinvolgere ogni spettatore in profondità e in prima persona su quell’argomento. Che a sua volta può essere di interesse personale o perfino esistenziale, oppure di macroscopiche dimensioni nazionali se non planetarie, ma sempre tali da poter rientrare nella sfera di chiunque partecipi a quelle «sedute» tanto impietose quanto brillanti e coinvolgenti. A Venezia ad esempio il loro spettacolo/saggio parlava proprio della città, e dei problemi che l’hanno sconvolta in questi ultimi anni: il Mose e il gigantesco scandalo che ne ha affondato i vertici politici d’ogni partito a suon di mazzette e corruzione, con impagabili approfondimenti sul governatore Galan e sul sindaco Orsoni; l’incendio dello storico teatro La Fenice (nelle cui sale Apollinee aveva luogo lo show) ad opera dei due disgraziati artigiani che pensavano di coprire col fuoco i loro ritardi nella consegna del lavoro; il turismo dilagante e invadente che spesso alla città toglie il fiato e ne muta le prospettive di comprensione; la piaga annosa dell’acqua alta cui il Mose avrebbe dovuto porre rimedio. E ancora altri temi e gioielli lagunari, dalla storia della musica che ogni tanto echeggiava tra un filmato e un altro, a citazioni cinematografiche assai adatte alla città della Mostra cinematografica. Grande ingegneria drammaturgica quindi, ma soprattutto scelta di far interpretare tutto quel kolossal allo stesso pubblico, che diviso in gruppi (da «Incendio» a «Mose») seguiva in cuffia le indicazioni di un attore guida, e incrociandosi nelle sale auguste assumeva ruoli e posture sempre diverse e irresistibili: Un innegabile trionfo dell’intelligenza a teatro.

Sul versante opposto, la produzione di un teatro illustre, lo Stary di Cracovia che fu di Wajda, che con la regia del suo direttore Jan Klata sposta lo shakespeariano Re Lear dall’Inghilterra medievaleal Vaticano di oggi. Ma la scelta di papa Ratzinger di voler abdicare dal trono di Pietro, è l’unica esteriore somiglianza. E molto esteriore risulta anche quello svolazzare di porpore e mitrie cardinalesche che si limitano a riproporre quasi «in maschera» (papalina, of course) e in scala ridotta e quindi difficile da seguire, la complessa storia politica e morale del capolavoro shakespeariano. Dispiego di cerimoniali religiosi d’alto bordo, e di tecnologie di ripresa e di amplificazione poco motivate. Anche Lear appariva solo in video, ma il regista ha poi spiegato che l’attore protagonista era deceduto dopo il debutto.
Ora l’appuntamento più atteso e chiacchierato, tra uno spettacolo e l’altro, è il nome del nuovo direttore della Biennale Teatro, ma tra pochi giorni anche questo piccolo mistero sarà sciolto.